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Page de couverture de Lucrezia e Margherita al Lazzaretto

Lucrezia e Margherita al Lazzaretto

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Aveva preso in affitto una misera stanza in Via San Salvatore Corte Regia Francesco Cevolini, mercenario al soldo dei Lanzichenecchi, dopo aver rubato, così raccontano le antiche cronache, un fagotto di stracci agli Alemanni. Stracci infetti, evidentemente. Sulle rive dell’Adige lo ospitava tale Lucrezia Isolani. Quando, pochi giorni dopo, lo trovarono morto nel suo letto, il mercenario aveva già contagiato Lucrezia e la sua figliola, Margherita. Era il 15 marzo 1630 e la peste entrava a Verona. Brilla l’Adige ai primi raggi del sole che sorge dietro al campanile di San Tomaso Becket. Lo guardo percorrendo il Lungadige Rubele e immagino i barconi colmi di appestati, con i barcaioli a debita distanza, a proteggersi con uno straccio la bocca per evitare il contagio. Sulla pala d’altare che nel 1636 il Comune commissionò ad Antonio Giarola, custodita nella basilica di San Fermo Maggiore, si vedono galleggiare i cadaveri lungo l’Adige, mentre una donna vestita di giallo e blu, a simboleggiare Verona, con il Leone Marciano affranto ai suoi piedi, invoca Maria che trattenga Cristo dallo scagliare le frecce scarlatte della punizione divina sulla città. «Il male invisibile», lo definì lo storico Carlo Maria Cipolla. «Il gran castigo di Dio», da cui era inutile tentare di sottrarsi. Quella che nel 1630 colpì l’Italia Settentrionale, provocando più di un milione di morti, fu una peste bubbonica, la stessa raccontata da Manzoni ne I promessi sposi. A Verona morirono più di trentamila persone su una popolazione di cinquantamila abitanti. Entrando nel Quartiere Filippini penso a cosa doveva aver visto, in quei giorni, il medico Francesco Pona quando scrisse le sue cronache nel libro Il Gran Contagio di Verona: «I cenci più sordidi, le più rozze, lacere, e rifiutate vestimenta, i più schiffi, e squarciati letti, et i più succidi origlieri si vedeano innanzi alle case, semiusti, e tra cieche et orride fiamme ammorbar di fetente fumo le contrade intiere...».Anche Lucrezia, portando in grembo la piccola Margherita, guardava quelle scene miserevoli mentre percorreva la strada per arrivare alla Chiesa del Cristo. Oggi non è rimasta che una targa a indicare la chiesa in cui, sul luogo dove con una lisca di pesce vennero decapitati i santi Fermo e Rustico, v’era il crocifisso miracoloso che gli appestati e i lebbrosi invocavano prima di essere imbarcati sull’Adige per il pietoso viaggio verso il Lazzaretto.L’idea di costruire un nuovo lazzaretto (o nazzaretto) propinquo al fiume Adige venne presa dal Consiglio dei Dodici e dei Cinquanta il 7 gennaio 1539. Fino ad allora, in caso di pestilenze i contagiati venivano rinchiusi nei casotti di legno di San Zeno e di Campo Marzio, altri nell’Ospedale di Sant’Agnese in Piazza Bra o nella Domus Pietatis in Piazza Dante, altri ancora nel vecchio Ospedale dei Santi Giacomo e Lazzaro, nel quartiere di San Pancrazio, detto «San Giacomo alla Rogna». Quando, nel 1517, i Veneziani realizzarono la così detta Spianà, abbattendo tutte le abitazioni e le piante ad alto fusto nel perimetro di un miglio intorno alla città, anche l’ospedale venne demolito e ricostruito nel quartiere di Borgo Roma e da allora si chiamò “San Giacomo alla Tomba”.La nuova struttura ospedaliera era stata terminata pochi decenni prima. Dal 1539, infatti, passarono otto anni prima che i tre incaricati del comune che dovevano scegliere il luogo dove costruire il Lazzaretto riferissero ai Consigli d’avere individuato all’interno dell’ansa dell’Adige un posto adatto, lontano dalle abitazioni nobiliari, raggiunto dal fiume che avrebbe permesso il trasporto degli ammalati senza il rischio che contagiassero altri cittadini. È probabile che il progetto di questo immenso ospedale, il più grande lazzaretto d’Italia dopo quello di Milano, fosse stato affidato fin da subito a Michele Sanmicheli che già stava lavorando in città. Vasari, nelle sue Vite, afferma che il progetto approvato dai rettori era stato ridimensionato dall’amministrazione cittadina. Non è dato sapere se l’ospedale terminato nel 1603, e costato più di ottantamila ducati, fosse quello progettato dal grande architetto veronese. A un approdo sul fiume, oggi invisibile tra il fitto della vegetazione, sbarcavano gli ammalati.Da lì una stradina conduceva fino alle mura del Lazzaretto. La cerco tra le sterpi e, districandomi tra i rovi, intravedo ciò che resta delle mura di cinta dell’ingresso occidentale. Penso a Dante e a quell’iscrizione perentoria sulla porta dell’Inferno: «Lasciate ogne speranza voi ch’intrate». Penso a Lucrezia e a sua figlia che, come tutti contumaciati che dovevano trascorrere in questo luogo dai 7 ai 40 giorni di quarantena, si dovettero spogliare delle loro povere vesti e raggiungere una piccola cella, tra le 152 che si aprivano sul chiostro di 239 per 117 metri che circondava lo spazio centrale, suddiviso da quattro mura oblique in quattro zone isolate tra ...
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