Épisodes

  • Agenti AI nel sales: risponde prima l'algoritmo del commerciale
    Dec 19 2025

    Nel 2025 parlare di vendite senza parlare di intelligenza artificiale significa ignorare una parte crescente del problema - e dell'opportunità - come emerge chiaramente dalla conversazione di RadioNext con Stefano Bertoli, fondatore di Rule Inside e imprenditore che sta portando gli agenti AI direttamente nel cuore dei reparti commerciali.

    Il punto di partenza è brutale quanto realistico: in molte aziende italiane il tempo di risposta a una richiesta commerciale supera ancora le 24 ore, quando non arriva dopo giorni o non arriva affatto, con un impatto devastante sui tassi di conversione. Studi citati durante l'intervista mostrano che bastano cinque minuti per passare da un potenziale successo dell'80% a percentuali che crollano sotto il 30%.

    Siamo davvero pronti a lasciare sul tavolo opportunità di business solo perché nessuno risponde in tempo? È su questo cortocircuito che si innestano gli agenti AI di vendita: software capaci di comprendere il contesto aziendale, interrogare una knowledge base, interpretare la richiesta del cliente e rispondere in autonomia, via chat o addirittura al telefono, con un linguaggio naturale sempre più indistinguibile da quello umano. Non si tratta di chatbot elementari, ma di veri e propri "copiloti" del commerciale, in grado di fare pre-qualifica, fissare appuntamenti, aggiornare CRM e agende, interagendo con i sistemi aziendali tramite API e lavorando end-to-end sui processi.

    La domanda chiave per manager e imprenditori resta però una: l'AI sostituisce i venditori? La risposta di Bertoli è netta e pragmatica: no, li libera. Gli agenti AI coprono il primo livello, gestiscono le attività ripetitive, non dormono, non vanno in ferie e rispondono fuori orario, lasciando alle persone le conversazioni ad alto valore, la negoziazione, la relazione. Un esempio concreto arriva dal settore immobiliare, dove un agente AI può fare attività di prospecting e fissare appuntamenti, permettendo all'agente umano di concentrarsi sulle visite e sulla chiusura.

    Resta il tema della fiducia: quanto tempo serve per "istruire" un agente di vendita senza rischiare risposte sbagliate o fuori tono? Qui entrano in gioco system prompt, casi limite e sistemi RAG che aggiornano dinamicamente le informazioni su prodotti, prezzi e promozioni, con una regola chiara: quando l'AI non sa, passa la mano all'umano.

    È un cambio di mentalità prima ancora che tecnologico, che tocca anche i call center e l'outbound, dove il dialogo one-to-one con un agente AI vocale può diventare fluido e credibile. Il vero vantaggio competitivo, come sottolinea Bertoli, non è la tecnologia in sé ma la capacità di adottarla in fretta: oggi un agente di vendita AI può essere implementato in pochi giorni. La domanda finale, quindi, non è se arriveranno, ma chi saprà usarli meglio e prima degli altri.

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  • Siamo pronti al marketing per le macchine?
    Dec 12 2025

    Nella nuova frontiera della customer experience, la domanda non è più "cosa cercano gli utenti?", ma "cosa chiedono alle macchine di trovare per loro?". È lo shift che Christoph Ramler, Group Marcom's Data Research and Intelligence Lead di Unicredit - e Giulio Valente, Global Digital Data Insight and Optimization Lead ci Amplifon hanno raccontato ai microfoni di #Radio Next, dentro un contesto dove browser come Comet di Perplexity e Atlas di ChatGPT stanno riscrivendo le regole del gioco.

    Se per anni la customer experience ha vissuto sull'analisi dei comportamenti digitali - click, scroll, funnel, conversioni - ora lo scenario si ribalta: non è più l'utente a muoversi verso i contenuti, è l'AI a portarli all'utente. E allora siamo davvero pronti a fare marketing non più alle persone, ma alle macchine che mediano il rapporto con le persone?

    Giulio lo dice chiaramente: "farsi trovare pronti" significa creare contenuti pensati per essere letti, interpretati e rielaborati dall'intelligenza artificiale. Non più keyword, ma argomentazioni; non più landing ottimizzate per Google, ma informazioni strutturate per rispondere a intenti complessi. Eppure la sfida non è solo semantica. Perché se l'AI diventa il punto di accesso, le aziende rischiano di perdere i dati di prima parte: non vedono più l'utente, vedono un crawler. Che cosa succede se Comet o Atlas diventano il nuovo "Google dei comportamenti", capaci di rivendere pattern o intent? E soprattutto: chi possiede davvero la relazione con il cliente?

    Christoph Ramler porta la prospettiva di un settore regolamentato come quello bancario, dove la fiducia è ancora un asset centrale. L'evoluzione, dice, sarà un modello "B2AI2C": prima le aziende parlano all'AI, poi l'AI parla al cliente. E per farlo servono contenuti chiari, affidabili, citabili. È la nascita della GEO - Generative Engine Optimization - che sostituisce la SEO nelle logiche di esposizione. Ma quanto possiamo rivelare senza esporci troppo? Christoph ribalta la domanda: la regolamentazione obbliga alla semplicità, quindi l'AI può essere un acceleratore di trasparenza.

    Resta però aperto un nodo enorme: l'omnicanalità. Siamo da anni al suo inseguimento, ma la verità, dice Valente, è che finché esiste la componente umana, non tutto sarà misurabile. Gli automatismi funzionano, ma il comportamento spontaneo - entrare in negozio, fare una telefonata, cambiare idea - sfugge agli schemi. Le aziende digital-native ci stanno arrivando, le grandi organizzazioni tradizionali hanno un percorso più lungo, ostacolato dal peso dei sistemi legacy.

    E allora che fare, da manager o imprenditori? Christoph invita ad "abbassare l'aspettativa su cosa l'AI può fare". Gli errori sono parte del processo, ma nel finance e nella health - ricorda Giulio - sbagliare è un problema enorme. Da qui la necessità di lavorare su fiducia, trasparenza, coerenza del messaggio. Perché il futuro della customer experience non sarà solo tecnologico: sarà una nuova forma di relazione, mediata dalle macchine ma guidata dalla credibilità del brand. E la domanda finale è inevitabile: stiamo costruendo contenuti per convertire o per essere compresi? Perché presto, molto presto, la differenza farà tutto.

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  • Community, non brand: la vera forza della Games Week 2025
    Dec 5 2025

    La Milano Games Week appena conclusa restituisce un'immagine chiara: il gaming non è più soltanto intrattenimento, ma un osservatorio privilegiato per capire come evolvescono gusti, linguaggi e comportamenti della nuova generazione digitale. Lo confermano le voci dei protagonisti che abbiamo riunito al microfono di RadioNext: Francesco Castiglioni - "Fra in the Frame" (creator, canale personale), Luca Porro (editore e creator), e la coppia Fabio e Ambra di Un Pad per due (creators). I loro racconti disegnano una fiera affaticante ma vitale, sempre più centrata sulle community e sempre meno sui grandi brand, un passaggio di testimone che chiunque lavori nel digitale farebbe bene a osservare con attenzione.

    Il primo dato che emerge è che i gamer stanno cambiando radicalmente. Fraesconc lo descrive senza esitazione: giocatori più informati, più consapevoli e molto più selettivi. Non è un caso che i titoli dell'anno provengano dagli studi indipendenti: è lì che si concentra l'innovazione reale, non più nelle grandi produzioni. Una lezione che vale anche per le aziende: in un mercato saturo di offerte, cresce il valore di chi sa differenziarsi con idee, velocità e coraggio. Siamo davvero pronti, come manager, a imparare dagli indie la cultura della sperimentazione?

    La Games Week, raccontano Fabio e Ambra, è un palcoscenico soprattutto per i più giovani, spesso timidi ma profondamente legati ai creator che seguono online. Il loro comportamento merita una riflessione per chi si occupa di marketing: la relazione non nasce dal contenuto, ma dalla continuità di presenza. E quando l'influencer si fa reale, quella relazione esplode in riconoscimento, fiducia, perfino gratitudine. Un asset emozionale difficile da costruire con i mezzi tradizionali.

    Interessante anche il controcampo di Luca Porro, che porta un pubblico più adulto, attratto non dal "gioco" ma dalle sue narrazioni profonde: creepypasta, saggistica, analisi della violenza, storie dell'orrore come specchio culturale. Seguono panel perché vogliono capire, non soltanto partecipare. E qui emerge il secondo grande insight manageriale: il videogioco è un linguaggio, e come ogni linguaggio può insegnare, disturbare, provocare domande. Perché allora le aziende continuano a trattarlo come un semplice "media per ragazzi"?

    Porro invita a smontare il binomio videogiochi-violenza citando Ethos della violenza videoludica, scritto da Elena Delfante, psicologa che usa il gaming nella terapia. Una prospettiva che ribalta il discorso pubblico: non è il gioco che crea la violenza, ma il gioco può aiutare a capirla, incanalarla, osservarla da fuori. Francesco completa il ragionamento spiegando come il combattimento digitale possa diventare catartico: entrando nello "stato di flusso", il giocatore scarica tensioni e frustrazioni. In un'epoca in cui il benessere mentale è centrale anche nelle aziende, possibile che il gaming diventi strumento di gestione dello stress?

    Fabio e Ambra riportano l'attenzione su un'altra leva: il gioco che porta a leggere. Five Nights at Freddy's diventa un ponte verso romanzi che ne ampliano l'universo narrativo. È un esempio perfetto di ecosistema crossmediale, oggi imprescindibile per strategie di contenuto realmente efficaci. Gli utenti non "consumano": esplorano, approfondiscono, si spostano da un formato all'altro seguendo il valore.

    Infine, la riflessione più ambiziosa: i videogiochi stanno diventando la nuova "opera d'arte totale". Interattivi, immersivi, capaci di generare narrazione, musica, performance, scelte morali. La transizione dal cinema al videogame come medium dominante non è completa, ma, come dice Luca Porro, "siamo lì". E se davvero il videogioco sta diventando lo specchio della società, le imprese possono ancora permettersi di ignorarlo?

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  • AI nei processi, decisioni alle persone: la ricetta per scalare
    Nov 28 2025

    In continuità con la puntata della scorsa settimana, torniamo su un punto chiave: senza scala, nel digitale si sopravvive ma non si compete. Con Federico Leproux, ceo di TeamSystem Group, mettiamo a fuoco perché il "mercato" delle soluzioni software per imprese, microimprese e persino ditte individuali tende a diventare un'area unica che supera i confini nazionali: Mediterraneo allargato, Europa centro-sud, Paesi con maturità e quadro normativo simili.

    Non si tratta solo di vicinanza geografica: contano cultura, timing regolatorio, modelli d'uso e incentivi che portano il digitale fino al professionista "quasi consumer". Domanda per i nostri ascoltatori: la vostra strategia riflette davvero dove oggi si sta formando la domanda, o siete ancora fermi alla mappa di ieri?

    Qui emerge il primo warning: rimanere piccoli è un rischio sistemico. In tecnologia l'agilità iniziale non basta; servono capitali, talenti, know-how, capacità di mettere AI e data platform dentro i prodotti. Chi non scala, presto soffrirà anche fuori dall'IT. E allora come si cresce?

    Federico suggerisce un playbook semplice e concreto per chi sta valutando acquisizioni: 1) partire dal razionale strategico, non dall'innamoramento per i numeri; chiedersi come l'insieme renda migliore entrambe le aziende; 2) costruire un business plan congiunto che traduca sinergie e integrazione in progetti operativi; 3) verificare il fit culturale, perché le persone devono voler lavorare "allo stesso modo" e con orizzonte condiviso; 4) definire da subito il management: c'è in casa, lo trovo nel target o devo inserirlo? Quanti deal si inceppano perché questi elementi arrivano dopo e non prima? Sullo sfondo, il ruolo del legislatore europeo: non solo "regolare", ma soprattutto rendere davvero omogeneo il mercato per consentire a player regionali di scalare.

    Gli USA e la Cina hanno un mercato-continente; l'Europa deve costruire scala "per design", con standard, procedure e incentivi coerenti. Siamo davvero pronti a scambiare un po' di complessità normativa con più competitività di lungo periodo? Sull'AI, nessuna fuga in avanti: non è hype passeggero, è un cambio di produttività che resterà. La differenza, però, la fa l'umano che sa usare l'AI come acceleratore: embedded nei processi, capace di macinare dati, pre-calcolare, sintetizzare, mentre le decisioni restano alle persone.

    Siamo disposti a far lavorare l'AI dietro le quinte, anziché delegarle il pensiero? Ultimo caveat: c'è il rischio di "atrofia cognitiva" se demandiamo troppo alla macchina; perciò governance e cultura digitale diventano fattori di competitività tanto quanto il codice. In sintesi: focus su geografie adiacenti, coraggio di scala, M&A con disciplina strategica, regole intelligenti per un mercato davvero unico e AI pragmatica nei processi. È qui che si gioca la partita dei prossimi tre anni.

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  • La vera scala è l'integrazione, non il fatturato
    Nov 21 2025

    Acquisire per accelerare, integrare per creare valore: è questa la trama che emerge con chiarezza quando si parla di come una tech company possa usare le operazioni straordinarie come motori di crescita, senza perdere l'anima da "grande startup". Il punto non è sommare fatturati né rincorrere vanity metrics, ma innestare competenze, prodotti e tecnologie che rendano il portafoglio più solido e la macchina organizzativa più veloce. Ai microfoni di #RadioNext e abbiamo parlato con Federico Leproux, amministratore delegato di TeamSystem Group.


    Siamo davvero pronti a valutare un'acquisizione come leva industriale e non come esercizio finanziario? La risposta passa da un doppio filtro: fit strategico e fit culturale. Il primo chiede una tesi chiara-cosa aggiunge quel prodotto alla nostra base clienti, alla nostra piattaforma, al nostro canale?-e una road map di integrazione che inizi dal giorno uno, spesso ancora prima del closing, con un piano industriale congiunto che definisca obiettivi, orizzonti temporali e scambi di valore reciproci. Il secondo, più delicato, riguarda i comportamenti: valori condivisi, regole del gioco esplicite, autonomia locale dove serve, ma sempre sotto una rotta comune.


    Perché acquisire all'estero, o anche solo in contesti di mercato molto diversi, significa rispettare usi, tempi, festività, persino piccoli rituali organizzativi, senza rinunciare a standard, piattaforme e pratiche che generano economie di scala e di scopo. Qui si gioca l'equilibrio vero: quanta libertà concedere alle unità locali per essere rilevanti sul territorio e quanta convergenza pretendere per generare effetto rete? La lezione è netta: si concede autonomia per il go-to-market e le specificità del servizio, si impone compatibilità su architetture, sicurezza, dati, qualità e governance.


    La scala non è un feticcio: serve perché tecnologia e talenti costano sempre di più, perché le soglie d'ingresso si alzano e perché la competizione non aspetta. Ma la scala senza integrazione crea costellazioni di marchi che non si parlano: un modello da fondo passivo, non da partner industriale. E allora il prodotto dell'acquisito deve poter salire su tutto il gruppo, dove ha senso, mentre la piattaforma, le practice e il brand del gruppo devono scendere a servizio dell'acquisito.


    Non tutto si fa subito-riscrivere un pezzo di software richiede mesi se non anni-ma tutto va pianificato, con milestone, metriche e sponsorship chiare. E il rischio che i founder "escano" portandosi via valore? C'è, ma si attenua allineando gli incentivi: ruoli manageriali nel perimetro più ampio, patti di earn-out legati a obiettivi industriali, percorsi che trasformano l'imprenditore in leader di piattaforma, non in spettatore.


    In fondo, la domanda cruciale per manager e imprenditori è semplice: questa combinazione rende l'insieme migliore delle sue parti? Se la risposta è sì, il resto è execution: designare la cabina di regia dell'integrazione, definire gli standard minimi non negoziabili, mappare sinergie tech e commerciali, strutturare un PMO che tenga insieme giorni 1, 100 e 365. Perché integrare non è un progetto: è una competenza core.


    E la vera innovazione organizzativa è saperla praticare ogni volta, con disciplina e curiosità.

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  • Dal mito a Milano al talento a Messina: state guardando nel posto giusto?
    Nov 14 2025

    Sud Innovation non nasce come un'ennesima conferenza, ma come infrastruttura: un rapporto che misura, una competition che seleziona eccellenze, un summit che collega imprese, università e istituzioni.

    È questo il messaggio che Roberto Ruggeri porta ai microfoni di RadioNext: il Mezzogiorno non va più trattato come periferia da assistere, ma come piattaforma competitiva dove qualità della vita, creatività e talenti internazionali attraggono imprese e investimenti. Siamo davvero pronti a riscrivere la mappa dell'innovazione italiana?

    I segnali ci sono: atenei meridionali con corsi attrattivi anche per l'estero (l'Università di Messina conta migliaia di iscritti stranieri), poli di big tech e deep tech già operativi (Cosenza per NTT Data, Catania per STMicroelectronics), una base di ricerca sull'AI capace di richiamare professori di livello internazionale.

    Per i manager il tema non è "se" guardare al Sud, ma "come" inserirlo in una strategia di diversificazione: costo dei fattori mediamente inferiore del 25-30%, bacini di talento meno saturi, mercati emergenti e, soprattutto, un arbitraggio competitivo possibile tra qualità della vita e produttività. Ma non basta aprire un ufficio: serve una regia. Oggi le politiche regionali funzionano a macchia di leopardo (Puglia docet), mentre il sistema avrebbe bisogno di una cabina interregionale che renda immediatamente "leggibile" il Mezzogiorno alle corporate del Nord e agli investitori esteri.

    Chi deve fare il primo passo? Le imprese possono attivare accordi con gli atenei - veri nodi di competenze e network globali - usando il Rapporto Sud Innovation come bussola per ridurre il rischio percepito grazie a un indicatore proprietario di competitività. Le istituzioni, dal canto loro, dovrebbero collegare gli incentivi e standardizzare percorsi, perché i silos territoriali sono il vero freno. E l'orizzonte? L'AI accelera tutto e impone una rotta chiara: riportare l'uomo al centro.

    È qui che il Sud può giocare una partita identitaria - una "risposta mediterranea" alla Silicon Valley - valorizzando umanesimo, creatività e contaminazione con i mercati del bacino. La traiettoria è ambiziosa: estendere rapporto, competition e summit al Mediterraneo, catalizzando capitali e progetti cross-border.

    Allora la domanda vera diventa: stiamo costruendo un ecosistema capace di far tornare i talenti e far crescere le imprese, o ci accontentiamo di un'arena di eventi? Se la misurazione guida le decisioni, la competizione fa emergere i migliori e il summit connette chi decide, il Sud può passare dal "potenziale inespresso" alla pipeline di innovazione dell'Italia. E per chi deve scegliere dove investire le prossime risorse, l'invito è pragmatico: mappa dei talenti con le università, partnership operative con i campioni locali, governance interregionale. Il resto è execution.

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  • Dal carrello al cantiere: l'e-commerce che installa
    Nov 7 2025
    Climamarket non è "solo" un e-commerce: è la dimostrazione che quando un'azienda parte da una filiera reale, la accorcia e la ricompone intorno al cliente, il digitale diventa moltiplicatore di valore, non vetrina di prezzo. La storia raccontata ai microfoni di Radio Next da Emanuele Scilanga, direttore generale di E-Globe S.p.A., è istruttiva per chiunque operi in mercati maturi e ultra-competitivi come la climatizzazione e il riscaldamento. Il punto di svolta? Portare online non soltanto il catalogo ma la promessa del negozio fisico: consulenza, trasparenza, installazione chiavi in mano. Siamo davvero pronti a misurare il nostro e-commerce sulla qualità del servizio, e non sullo sconto in homepage? Per E-Globe la risposta è sì, perché il cliente non cerca un "prodotto" di efficientamento energetico: cerca una soluzione che funzioni, sia installata a regola d'arte e arrivi nei tempi che la vita di oggi impone. Da qui l'impegno a garantire in Italia la consegna con installazione in cinque o sei giorni lavorativi "con un click": una value proposition semplice da capire, difficile da replicare senza un'organizzazione end-to-end e una rete di partner davvero selezionata. Dietro c'è una scelta strategica chiara: spostarsi dalla pura distribuzione al servizio completo, evitando la trappola dei marketplace dove si compete solo sul prezzo. È un messaggio a tutti i brand e i retailer che fanno fatica a difendere margini e identità: la differenza non la fa l'algoritmo di bidding, la fanno la consulenza e l'esecuzione. Quali processi e competenze servono per sostenere questa promessa? In primo luogo una rete di installatori costruita negli anni, qualificata su sicurezza e standard operativi, e gestita come asset critico, non come "ultimo miglio" da improvvisare. La selezione è progressiva: si parte "larghi" e si ottimizza, con criteri oggettivi di qualità e affidabilità. Così l'azienda può dire al professionista di Pescara (o di Aosta): "domani ti affido un cliente, tu installa e rispetta il percorso di qualità; al resto pensiamo noi". È un capovolgimento rispetto al modello tradizionale: il partner non deve fare CRM o generazione di lead, perché la piattaforma si prende carico di orchestrare domanda, logistica, compliance. Un invito a tanti operatori B2B italiani: siete disposti a portare in casa vostra il "pezzo di servizio" dove nasce il valore?Secondo pilastro: la trasparenza. Prezzi, condizioni, tempi, responsabilità. In un settore affollato, la frizione informativa è spesso la vera barriera all'acquisto. Rendere visibile ciò che normalmente è opaco-dal preventivo all'installazione-non è un vezzo di UX, è una leva commerciale. Ogni manager e-commerce dovrebbe chiedersi: quanta incertezza sto scaricando sul cliente? Posso trasformarla in promessa contrattuale e, quindi, in vantaggio competitivo?Terzo pilastro: il capitale. La scelta di quotarsi in Borsa non è stata un esercizio di immagine: ha abilitato raccolta di risorse per un piano industriale più ambizioso, ha consolidato la credibilità verso partner e fornitori e ha reso possibili operazioni straordinarie, come l'acquisizione della spagnola Bayona-oggi Climamarket Europe-che ha accelerato il posizionamento internazionale. È una lezione utile per chi scala dal regionale al nazionale (e oltre): il passaggio non si fa solo aumentando il budget media, ma costruendo solide fondamenta finanziarie e istituzionali. Ci chiediamo spesso se "il digitale" basti a crescere: questa esperienza dice che il digitale va innestato su scelte corporate-governance, finanza, M&A-coerenti con l'ambizione. Quarto pilastro: il talento. La conversazione scardina un luogo comune duro a morire-il digitale è "solo" Milano-e mette al centro la leva più sottovalutata delle imprese del Sud: le competenze che ci sono, che possono rientrare, e che si fidelizzano quando l'azienda dà voce, responsabilità e traiettorie di crescita. Non è retorica: se la piattaforma digitale consente di vendere e servire clienti ovunque, allora l'organizzazione può attrarre profili ovunque e riportare a casa professionalità emigrate, a patto di offrire un progetto credibile, processi chiari e un ambiente dove le persone contano davvero. La domanda da manager è brutale: stiamo ripensando ruoli, formazione e percorsi per far sì che i team periferici siano centrali? O continuiamo a cercare profili "copy-paste" nel raggio di tre fermate di metro?C'è poi un messaggio operativo destinato a PMI e retail tradizionali: "credere" nel digitale significa dotarsi di una presenza che accompagni ogni fase del customer journey, anche quando l'acquisto si chiude nel negozio fisico. Oggi, con l'avvento dell'intelligenza artificiale conversazionale, la discoverability non passa solo dal motore di ricerca, ma da risposte che gli utenti ottengono in chat. Questo impone contenuti chiari e strutturati, schede prodotto ricche, politiche di prezzo leggibili, FAQ utili, e soprattutto una ...
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  • Dal menù al magazzino: l'AI che ordina per te
    Oct 31 2025
    Ecco un settore, la ristorazione, che non può più permettersi comfort zone: margini compressi, flussi imprevedibili e un consumatore oscillante tra voglia di socialità e praticità del "tap to eat". I numeri citati in puntata parlano chiaro: saldo negativo tra aperture e chiusure nell'ultimo biennio e situazione in deterioramento; non fisiologia, ma trasformazione strutturale. Da cosa nasce? Da un lato la desertificazione delle attività su strada; dall'altro, non tanto la mancanza di denaro quanto l'"effetto incertezza" che frena il consumo fuori casa: crisi internazionali, instabilità geopolitica, messaggi che agitano mercati e famiglie. È davvero solo un tema di scontrino medio o è la percezione di rischio a guidare le scelte? In questo quadro, la digitalizzazione non è un gadget: è architettura operativa. La direzione indicata da iPratico è netta: piattaforma "open" capace di ospitare moduli propri e soluzioni terze, al contrario dei modelli "walled garden" che impongono pacchetti chiusi. Tradotto per un ristoratore o una catena: posso comporre il mio stack - cassa, ordering, pagamenti, logistica, analytics - senza lock-in, e attivare rapidamente ciò che mi serve, quando mi serve. È questa componibilità a liberare efficienza, perché riduce i costi di integrazione e accelera il time-to-value delle iniziative digitali. Perché è cruciale? Perché la competizione oggi non è tra "ristoranti digitali" e "ristoranti analogici", ma tra filiere corte e filiere inefficienti; tra chi governa il dato in tempo quasi reale e chi decide su consuntivi mensili. Qui entra Soplaya: un front-end semplice per l'acquisto che nasconde un back-end industriale. Un unico ordine, un'unica fattura, un unico pagamento e una consegna unificata per fresco, secco e surgelato, con refurbishment automatico sulla base del venduto, tracciato dalla cassa; fino a 20 ore a settimana recuperate nella gestione procurement; riduzione del food cost e, soprattutto, dello spreco grazie a un modello di replenishment più frequente e coerente con la domanda reale. La vera innovazione, però, non è solo nel carrello unico: è nell'orchestrazione di filiera. Pianificazione delle rotte, gestione dei magazzini, integrazione con i produttori e sincronizzazione dei dati con il punto cassa. Il risultato è un ciclo chiuso del dato: lo scontrino alimenta il fabbisogno, il fabbisogno alimenta l'ordine, l'ordine alimenta la consegna, la consegna aggiorna il magazzino, e il magazzino ritorna al menu. È qui che "dati di cassa + distinte base + scorte" promettono, nei prossimi mesi, suggerimenti d'ordine quasi in autopilota. Non è fantascienza: è ciò che da anni fanno retail e GDO; la ristorazione oggi può entrarci con strumenti nati per lei. E la scalabilità? Soplaya dichiara copertura già estesa nel Nord e Centro Italia, con modello "ordini entro mezzanotte, consegna il giorno dopo", e piani di espansione nazionale e internazionale: la geografia segue la domanda delle catene e di community di clienti che si allargano. Significa che un gruppo multi-sede può disegnare processi replicabili e KPI comparabili tra piazze diverse, togliendo variabilità al costo del venduto, alla dispersione di cassa e alla qualità del servizio. Qui la missione di iPratico è chiara: creare una user experience senza frizioni su pagamenti e ordering, dal chiosco al QR al conto "al tavolo", integrando le migliori tecnologie senza chiedere al cliente di capire cos'è "issuing" o "acquiring". Il punto non è la feature, è l'esperienza. Cosa significa, operativamente, per manager e imprenditori del food service? Primo: pensare "platform" e non "progetto". Definire una reference architecture fatta di moduli attivabili via API; fissare standard dati e policy d'integrazione; pretendere SLA misurabili su latenza, uptime e tempi di onboarding. Secondo: connettere front-of-house e back-of-house. Il dato di cassa vale se guida procurement, menu engineering e pricing dinamico. Non basta "vedere" vendite: serve trasformarle in forecast, suggerimenti d'ordine e rotazioni di magazzino. Terzo: misurare il ROI su tre leve dure - tempo, scorte, margini. Ore liberate per settimana (planner e chef), giorni di copertura media per categoria, % di deperibile buttato, food cost per piatto e per canale (sala vs delivery), lead time dall'ordine allo scaffale. Quarto: lavorare sulla governance del cambiamento. La tecnologia fallisce quando è "sovrapposta" al servizio, non quando lo ridisegna. Formazione, incentivi e rituali operativi (daily di 10 minuti su scorte critiche e forecast) trasformano un software in disciplina. Siamo davvero pronti a governare questo passaggio? La vera domanda non è "quale software", ma "quale modello operativo" vogliamo adottare per guadagnare resilienza e margine in un contesto incerto. Le testimonianze di Domenico Palmisani e Mauro Germani in puntata indicano una rotta: piattaforme aperte, integrazione rapida, automazione del procurement, e ...
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