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Page de couverture de Vi cammino una storia con Anderloni

Vi cammino una storia con Anderloni

Vi cammino una storia con Anderloni

Auteur(s): Gruppo editoriale Athesis
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À propos de cet audio

Cantastorie “di professione” con il teatro, il cinema e la scrittura, Alessandro Anderloni percorre a
piedi ogni settimana un itinerario della provincia di Verona, dalla Lessinia alle Basse, dal Lago alle colline, nel cuore e nella periferia della città, per farsi voce di leggende, fiabe, fatti storici, personaggi della tradizione locale. Racconta l’anima profonda e antica della terra veronese, senza nostalgie, mostrandone i luoghi, respirandone i profumi, dialogando con i rumori.Gruppo editoriale Athesis
Essais et carnets de voyage Sciences sociales
Épisodes
  • Canale Biffis
    Nov 8 2025
    Cerco la riva dell’Adige. È alto il fiume, e color caffelatte. La sua mano possente porta con sé, insieme alle acque, i detriti degli ultimi giorni di pioggia. Spunto dal folto del fogliame sull’argine e mi affaccio sull’invaso chiuso da due paratie: l’una, con quattro luci, sbarra il corso del fiume, l’altra, con sei, devia la sua acqua nel canale in cui quassù, tra Ala e Avio, l’Adige si biforca. Cerco di immaginare il “pennello deviatore” costruito con cassoni pneumatici che divideva in due le acque. Era il 1929 e i lavori del Canale Biffis erano appena iniziati.Cammino nelle prime luci del giorno. Percorro la valle e constato quanto l’abbiamo scavata, segnata, manomessa. Strade e autostrade, ferrovie e canali rigano questo lembo di terra tra le montagne, si fanno largo tra i paesi e le contrade, tra i campi e le zone industriali. E L’Adige sembra dover cercare la sua via facendosi largo tra gli ostacoli postigli dall’Uomo. Eppure, novant’anni fa, riuscirono a prelevarne una lama d’acqua e a condurla, per 47 chilometri, dalla Bassa Vallagarina fino alle porte di Verona, in un canale che porta il nome di chi lo progettò, a inizio Novecento, Fernando Biffis, l’ingegnere che convinse le istituzioni a costruire un’opera che avrebbe permesso di irrigare i campi e di produrre elettricità. Gli abitanti dapprima osteggiarono l’apertura del mastodontico cantiere della SIME, la Società Idroelettrica del Medio Adige, che avrebbe potuto sconvolgere i ritmi e la vita della valle. Per placare le proteste si dovette arrivare, nel 1928, a un telegramma di Mussolini che intervenne di persona per «troncare ogni altro indugio e iniziare i lavori. Stop».Cerco, ad Avio, il centro sportivo dove un tempo vi era un campo di internamento per prigionieri di guerra. Erano croati, inglesi ma anche balcanici e russi. Lavoravano nel cantiere del Biffis insieme con gli operai del posto. I lavori, interrotti subito dopo l’avvio a causa della crisi economica del Ventinove, ripresero proprio allo scoppiare della Seconda Guerra Mondiale e alla costruzione del canale lavorarono così anche i prigionieri di guerra. Me li immagino nel fondo del grande fossato, armati non di fucili ma di picconi e badili, insieme con i valligiani che ogni giorno si presentavano all’alba sul cantiere. L’assunzione era facile: si arrivava in bicicletta, portando con sé gli attrezzi da lavoro e la gamella con il rancio appesa al manubrio, si accettavano dal capocantiere le condizioni di lavoro e si iniziava a scavare. Nel 1941 la paga variava tra le 1,15 e le 4,20 lire l’ora.La costruzione del Biffis cambiò il rapporto dei paesi con la valle. A Belluno Veronese il canale oggi abbraccia il paese e lo chiude sulla sua riva destra, con cinque ponti a scavalcarlo. Oltre agli uomini penso agli animali selvatici: come avranno attraversato questa barriera d’acqua? A Brentino cerco la Madonna della Corona. Eccola, lassù, a proteggere con la sua mano l’industriarsi degli uomini nella vallata. Gli operai del Biffis, quando la fede consolava la fatica del lavoro, giunti sul cantiere, alla vista della Corona si saranno levati il cappello e, con il Segno della Croce, avranno recitato un’Ave Maria. Poi il lavoro: sei milioni di metri cubi di scavi all’aperto e 650.000 in galleria, guadagnati a metro a metro con il sudore, non uscendo da quei buchi polverosi e bui nemmeno per il pranzo.Ecco, a Preabocco, prima della chiesetta di Santa Maria delle Grazie, che il Biffis si infila sottoterra. Dovrà oltrepassare la Chiusa di Ceraino, mantenendo la sua pendenza di appena 0,26 per mille, implacabile, inarrestabile, fino a scaricare le sue acque nelle tubature delle centrali idroelettriche a valle.Il Forte di San Marco, bastione a strapiombo sulla valle che pare inaccessibile, annuncia la terra del conteso confine. Prima gli Austriaci e poi gli Italiani costruirono forti qui, dove la valle si restringe, a Ceraino. Incurante delle mura costruite dagli uomini, l’acqua del Biffis percorre il buio del sottosuolo, rompe le rocce su cui posa il Forte Wohlgemuth di Rivoli, inganna questi confini che fecero combattere Napoleone e tutti gli altri come lui.Al suo riemergere di là della Chiusa di Ceraino, il canale non ha più ostacoli, ora è libero di correre verso la pianura. Alla Sega di Cavaion prende perfino il volo. Per fargli scavalcare la valle del Torrente Tasso, tra il 1941 e il 1943 costruirono un ponte di arconi e piloni di calcestruzzo armato a sostenere l’acqua del canale. Sotto l’impressionante arcata passava la vecchia linea ferroviaria Caprino Verona, dismessa nel 1959. Nelle foto pubblicate da Claudio Malini nel suo splendido libro sul Canale Biffis, si può vedere la vecchia locomotiva transitare accanto alle impalcature di legno del cantiere, tra lo sguardo degli operai che la chiamavano La Bigiona.A Piovezzano la grande scarpata in riva al fiume, rivestita di pietre moreniche, è decorata con motivi ...
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    18 min
  • Adelaide di Borgogna
    Nov 1 2025
    «Lago da l’aqua fresca o celestina / de le fontane che te sbrissia dentro, / lago de Garda da la recia fina / che te senti tremar le vele al vento / e i limonari quando i se inchina / zo da le rive a farte complimento, / l’èto vista scapar quela regina / che i aveva impresonado a tradimento?» Canto i versi di Berto Barbarani e guardo la Rocca, nell’alba sul Garda. Il limnonimo che si impose sull’antico Benàco ha origine qui, dal posto di guardia (Warda in germanico) che si trovava sulla Rocca.Dorme ancora il lungolago. I pescatori approdano al porto di Garda a scaricare il pescato, i camerieri aprono gli ombrelloni e spazzano le foglie d’autunno, tra poco il popolo dei turisti si sveglierà e sarà la consueta, festosa, eppure caotica e invadente ressa. È l’ora dove godere di uno scampolo di pace. Anche i gabbiani, le anatre, i cigni sembrano godersi il primo tepore del giorno e il silenzio che tra un po’ sarà travolto dai rumori del turismo.Salgo alla Rocca di Garda alla ricerca della fortezza dove avevano «impresonado a tradimento» la regina. Si chiamava Adelaide. Alla fine del Decimo Secolo le avevano fatto sposare Lotario I re d’Italia. Rimase vedova quando il fratello del re, Berengario II, lo avvelenò per usurpargli il trono e pretese che la regina si unisse a suo figlio primogenito, Adalberto. Al suo rifiuto, la moglie di Berengario, Willa, la rinchiuse prima nella fortezza di Lernia sul Lago di Como e poi quassù, nella fortezza sulla Rocca di Garda.Il promontorio che si sporge sul Lago è l’ultima propaggine del Monte Baldo che sembra volersi bagnare i piedi nell’acqua del Garda. La Rocca segna il confine tra i Comuni di Garda e Bardolino, tra l’alto lago montano e tranquillo e il basso e vivace lago collinare. Quassù doveva torreggiare la fortezza costruita nel Quinto Secolo, l’inespugnabile castello dove Turisendo dei Turisendi nel 1162 resistette un anno all’assedio di Federico I Hohenstaufen detto Barbarossa, il maniero che l’imperatore Enrico VI vendette per settecento marche d’argento al Comune di Verona e che nel 1209 Ottone IV demolì, forse per vendicare l’antica progenitrice, Adelaide di Borgogna. Rinchiusa nella Rocca del Garda, alla regina vennero ridotte le razioni di cibo. Prigioniera, Adelaide visse confortata solo dalla compagnia di una serva e di un frate, il monaco Martino. Fu egli a permetterle di fuggire, scavando a colpi di scalpello un cunicolo che conduceva in un luogo appartato della collina.I Gardesani lo chiamano el cesiol o la grotta di Adelaide. Mi chiedo dove sarà, nel segreto della Rocca. Le gallerie militari in cui mi infilo si aprono a una vista sul meraviglioso basso lago, ma la parete strapiomba: è impossibile scendere di qui. Mi rassegno, la Rocca custodisce il segreto del cesiol. Scendo a Garda per il sentiero dove ora salgono correndo i salutisti del jogging. Sulla riva del lago non c’è più pace, l’andirivieni dei turisti fagocita ogni cosa. Le voci coprono le grida dei gabbiani, i rombo dei motori lo sciabordio delle onde.Adelaide ricevette aiuto da un pescatore che la imbarcò sulla sua piccola barca e, nottetempo, le fece attraversare il lago, inseguita da Berengario e i suoi scagnozzi. Un vento sotterraneo e misterioso si levò dalle acque sospinse Adelaide verso la salvezza, mentre i suoi inseguitori vennero avvolti dalla nebbia. Quel vento, racconta la leggenda, da quel giorno si alza ogni sera e permette di raggiungere in una notte tutti i luoghi del Garda. Non è l’Ora, alito che soffia da sud, da mezzogiorno a sera, non è l’impetuoso Pelér che pela il Lago da Nord, avanzando come un leone, non è l’Andèr, vento che se soffia dal bresciano nel primo pomeriggio annuncia bel tempo ma se soffia fuori orario porta tempesta perché l’Andèr l’è balander, non è nemmeno il Balì, il vento del tempo bello, fresco e asciutto che viene e va in tre giorni, né la Vinèsa, vento impetuoso che soffia a raffiche dal basso lago e porta tempesta, né la Visentina che l’è ladra o assassina, non è nemmeno il Ponàl che, come dice un altro proverbio, no’l porta altro che mal. Il vento che spinse lievemente la barca di Adelaide verso Sirmione non ha nome. Per riconoscerlo bisogna navigare di notte, in solitudine, e lasciarsi portare dalle onde e dalla fantasia.«Ecco, la verde Sirmio nel lucido lago sorride, / fiore de le penisole», cantò Giosuè Carducci. Sbarcata sulla penisola, Adelaide raggiunse e attraversò agevolmente la Selva Lugana, io a fatica mi muovo nella selva di caffè e gelaterie tra una folla imbizzarrita. Lei, la regina, si districò in fretta tra la boscaglia e raggiunse lo Stagno del Lavagnone, a Desenzano, o forse l’antico monastero di Lonato, o addirittura la fortificata Peschiera. Sia come sia, Adelaide arrivò fino alla Reggia dei Canossa, sull’Appennino Reggiano. Qui chiese protezione a Ottone il Grande, re di Germania, che se la sposò. I due vennero incoronati ...
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    18 min
  • Lucrezia e Margherita al Lazzaretto
    Oct 25 2025
    Aveva preso in affitto una misera stanza in Via San Salvatore Corte Regia Francesco Cevolini, mercenario al soldo dei Lanzichenecchi, dopo aver rubato, così raccontano le antiche cronache, un fagotto di stracci agli Alemanni. Stracci infetti, evidentemente. Sulle rive dell’Adige lo ospitava tale Lucrezia Isolani. Quando, pochi giorni dopo, lo trovarono morto nel suo letto, il mercenario aveva già contagiato Lucrezia e la sua figliola, Margherita. Era il 15 marzo 1630 e la peste entrava a Verona. Brilla l’Adige ai primi raggi del sole che sorge dietro al campanile di San Tomaso Becket. Lo guardo percorrendo il Lungadige Rubele e immagino i barconi colmi di appestati, con i barcaioli a debita distanza, a proteggersi con uno straccio la bocca per evitare il contagio. Sulla pala d’altare che nel 1636 il Comune commissionò ad Antonio Giarola, custodita nella basilica di San Fermo Maggiore, si vedono galleggiare i cadaveri lungo l’Adige, mentre una donna vestita di giallo e blu, a simboleggiare Verona, con il Leone Marciano affranto ai suoi piedi, invoca Maria che trattenga Cristo dallo scagliare le frecce scarlatte della punizione divina sulla città. «Il male invisibile», lo definì lo storico Carlo Maria Cipolla. «Il gran castigo di Dio», da cui era inutile tentare di sottrarsi. Quella che nel 1630 colpì l’Italia Settentrionale, provocando più di un milione di morti, fu una peste bubbonica, la stessa raccontata da Manzoni ne I promessi sposi. A Verona morirono più di trentamila persone su una popolazione di cinquantamila abitanti. Entrando nel Quartiere Filippini penso a cosa doveva aver visto, in quei giorni, il medico Francesco Pona quando scrisse le sue cronache nel libro Il Gran Contagio di Verona: «I cenci più sordidi, le più rozze, lacere, e rifiutate vestimenta, i più schiffi, e squarciati letti, et i più succidi origlieri si vedeano innanzi alle case, semiusti, e tra cieche et orride fiamme ammorbar di fetente fumo le contrade intiere...».Anche Lucrezia, portando in grembo la piccola Margherita, guardava quelle scene miserevoli mentre percorreva la strada per arrivare alla Chiesa del Cristo. Oggi non è rimasta che una targa a indicare la chiesa in cui, sul luogo dove con una lisca di pesce vennero decapitati i santi Fermo e Rustico, v’era il crocifisso miracoloso che gli appestati e i lebbrosi invocavano prima di essere imbarcati sull’Adige per il pietoso viaggio verso il Lazzaretto.L’idea di costruire un nuovo lazzaretto (o nazzaretto) propinquo al fiume Adige venne presa dal Consiglio dei Dodici e dei Cinquanta il 7 gennaio 1539. Fino ad allora, in caso di pestilenze i contagiati venivano rinchiusi nei casotti di legno di San Zeno e di Campo Marzio, altri nell’Ospedale di Sant’Agnese in Piazza Bra o nella Domus Pietatis in Piazza Dante, altri ancora nel vecchio Ospedale dei Santi Giacomo e Lazzaro, nel quartiere di San Pancrazio, detto «San Giacomo alla Rogna». Quando, nel 1517, i Veneziani realizzarono la così detta Spianà, abbattendo tutte le abitazioni e le piante ad alto fusto nel perimetro di un miglio intorno alla città, anche l’ospedale venne demolito e ricostruito nel quartiere di Borgo Roma e da allora si chiamò “San Giacomo alla Tomba”.La nuova struttura ospedaliera era stata terminata pochi decenni prima. Dal 1539, infatti, passarono otto anni prima che i tre incaricati del comune che dovevano scegliere il luogo dove costruire il Lazzaretto riferissero ai Consigli d’avere individuato all’interno dell’ansa dell’Adige un posto adatto, lontano dalle abitazioni nobiliari, raggiunto dal fiume che avrebbe permesso il trasporto degli ammalati senza il rischio che contagiassero altri cittadini. È probabile che il progetto di questo immenso ospedale, il più grande lazzaretto d’Italia dopo quello di Milano, fosse stato affidato fin da subito a Michele Sanmicheli che già stava lavorando in città. Vasari, nelle sue Vite, afferma che il progetto approvato dai rettori era stato ridimensionato dall’amministrazione cittadina. Non è dato sapere se l’ospedale terminato nel 1603, e costato più di ottantamila ducati, fosse quello progettato dal grande architetto veronese. A un approdo sul fiume, oggi invisibile tra il fitto della vegetazione, sbarcavano gli ammalati.Da lì una stradina conduceva fino alle mura del Lazzaretto. La cerco tra le sterpi e, districandomi tra i rovi, intravedo ciò che resta delle mura di cinta dell’ingresso occidentale. Penso a Dante e a quell’iscrizione perentoria sulla porta dell’Inferno: «Lasciate ogne speranza voi ch’intrate». Penso a Lucrezia e a sua figlia che, come tutti contumaciati che dovevano trascorrere in questo luogo dai 7 ai 40 giorni di quarantena, si dovettero spogliare delle loro povere vesti e raggiungere una piccola cella, tra le 152 che si aprivano sul chiostro di 239 per 117 metri che circondava lo spazio centrale, suddiviso da quattro mura oblique in quattro zone isolate tra ...
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    18 min
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