Épisodes

  • Canale Biffis
    Nov 8 2025
    Cerco la riva dell’Adige. È alto il fiume, e color caffelatte. La sua mano possente porta con sé, insieme alle acque, i detriti degli ultimi giorni di pioggia. Spunto dal folto del fogliame sull’argine e mi affaccio sull’invaso chiuso da due paratie: l’una, con quattro luci, sbarra il corso del fiume, l’altra, con sei, devia la sua acqua nel canale in cui quassù, tra Ala e Avio, l’Adige si biforca. Cerco di immaginare il “pennello deviatore” costruito con cassoni pneumatici che divideva in due le acque. Era il 1929 e i lavori del Canale Biffis erano appena iniziati.Cammino nelle prime luci del giorno. Percorro la valle e constato quanto l’abbiamo scavata, segnata, manomessa. Strade e autostrade, ferrovie e canali rigano questo lembo di terra tra le montagne, si fanno largo tra i paesi e le contrade, tra i campi e le zone industriali. E L’Adige sembra dover cercare la sua via facendosi largo tra gli ostacoli postigli dall’Uomo. Eppure, novant’anni fa, riuscirono a prelevarne una lama d’acqua e a condurla, per 47 chilometri, dalla Bassa Vallagarina fino alle porte di Verona, in un canale che porta il nome di chi lo progettò, a inizio Novecento, Fernando Biffis, l’ingegnere che convinse le istituzioni a costruire un’opera che avrebbe permesso di irrigare i campi e di produrre elettricità. Gli abitanti dapprima osteggiarono l’apertura del mastodontico cantiere della SIME, la Società Idroelettrica del Medio Adige, che avrebbe potuto sconvolgere i ritmi e la vita della valle. Per placare le proteste si dovette arrivare, nel 1928, a un telegramma di Mussolini che intervenne di persona per «troncare ogni altro indugio e iniziare i lavori. Stop».Cerco, ad Avio, il centro sportivo dove un tempo vi era un campo di internamento per prigionieri di guerra. Erano croati, inglesi ma anche balcanici e russi. Lavoravano nel cantiere del Biffis insieme con gli operai del posto. I lavori, interrotti subito dopo l’avvio a causa della crisi economica del Ventinove, ripresero proprio allo scoppiare della Seconda Guerra Mondiale e alla costruzione del canale lavorarono così anche i prigionieri di guerra. Me li immagino nel fondo del grande fossato, armati non di fucili ma di picconi e badili, insieme con i valligiani che ogni giorno si presentavano all’alba sul cantiere. L’assunzione era facile: si arrivava in bicicletta, portando con sé gli attrezzi da lavoro e la gamella con il rancio appesa al manubrio, si accettavano dal capocantiere le condizioni di lavoro e si iniziava a scavare. Nel 1941 la paga variava tra le 1,15 e le 4,20 lire l’ora.La costruzione del Biffis cambiò il rapporto dei paesi con la valle. A Belluno Veronese il canale oggi abbraccia il paese e lo chiude sulla sua riva destra, con cinque ponti a scavalcarlo. Oltre agli uomini penso agli animali selvatici: come avranno attraversato questa barriera d’acqua? A Brentino cerco la Madonna della Corona. Eccola, lassù, a proteggere con la sua mano l’industriarsi degli uomini nella vallata. Gli operai del Biffis, quando la fede consolava la fatica del lavoro, giunti sul cantiere, alla vista della Corona si saranno levati il cappello e, con il Segno della Croce, avranno recitato un’Ave Maria. Poi il lavoro: sei milioni di metri cubi di scavi all’aperto e 650.000 in galleria, guadagnati a metro a metro con il sudore, non uscendo da quei buchi polverosi e bui nemmeno per il pranzo.Ecco, a Preabocco, prima della chiesetta di Santa Maria delle Grazie, che il Biffis si infila sottoterra. Dovrà oltrepassare la Chiusa di Ceraino, mantenendo la sua pendenza di appena 0,26 per mille, implacabile, inarrestabile, fino a scaricare le sue acque nelle tubature delle centrali idroelettriche a valle.Il Forte di San Marco, bastione a strapiombo sulla valle che pare inaccessibile, annuncia la terra del conteso confine. Prima gli Austriaci e poi gli Italiani costruirono forti qui, dove la valle si restringe, a Ceraino. Incurante delle mura costruite dagli uomini, l’acqua del Biffis percorre il buio del sottosuolo, rompe le rocce su cui posa il Forte Wohlgemuth di Rivoli, inganna questi confini che fecero combattere Napoleone e tutti gli altri come lui.Al suo riemergere di là della Chiusa di Ceraino, il canale non ha più ostacoli, ora è libero di correre verso la pianura. Alla Sega di Cavaion prende perfino il volo. Per fargli scavalcare la valle del Torrente Tasso, tra il 1941 e il 1943 costruirono un ponte di arconi e piloni di calcestruzzo armato a sostenere l’acqua del canale. Sotto l’impressionante arcata passava la vecchia linea ferroviaria Caprino Verona, dismessa nel 1959. Nelle foto pubblicate da Claudio Malini nel suo splendido libro sul Canale Biffis, si può vedere la vecchia locomotiva transitare accanto alle impalcature di legno del cantiere, tra lo sguardo degli operai che la chiamavano La Bigiona.A Piovezzano la grande scarpata in riva al fiume, rivestita di pietre moreniche, è decorata con motivi ...
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    18 min
  • Adelaide di Borgogna
    Nov 1 2025
    «Lago da l’aqua fresca o celestina / de le fontane che te sbrissia dentro, / lago de Garda da la recia fina / che te senti tremar le vele al vento / e i limonari quando i se inchina / zo da le rive a farte complimento, / l’èto vista scapar quela regina / che i aveva impresonado a tradimento?» Canto i versi di Berto Barbarani e guardo la Rocca, nell’alba sul Garda. Il limnonimo che si impose sull’antico Benàco ha origine qui, dal posto di guardia (Warda in germanico) che si trovava sulla Rocca.Dorme ancora il lungolago. I pescatori approdano al porto di Garda a scaricare il pescato, i camerieri aprono gli ombrelloni e spazzano le foglie d’autunno, tra poco il popolo dei turisti si sveglierà e sarà la consueta, festosa, eppure caotica e invadente ressa. È l’ora dove godere di uno scampolo di pace. Anche i gabbiani, le anatre, i cigni sembrano godersi il primo tepore del giorno e il silenzio che tra un po’ sarà travolto dai rumori del turismo.Salgo alla Rocca di Garda alla ricerca della fortezza dove avevano «impresonado a tradimento» la regina. Si chiamava Adelaide. Alla fine del Decimo Secolo le avevano fatto sposare Lotario I re d’Italia. Rimase vedova quando il fratello del re, Berengario II, lo avvelenò per usurpargli il trono e pretese che la regina si unisse a suo figlio primogenito, Adalberto. Al suo rifiuto, la moglie di Berengario, Willa, la rinchiuse prima nella fortezza di Lernia sul Lago di Como e poi quassù, nella fortezza sulla Rocca di Garda.Il promontorio che si sporge sul Lago è l’ultima propaggine del Monte Baldo che sembra volersi bagnare i piedi nell’acqua del Garda. La Rocca segna il confine tra i Comuni di Garda e Bardolino, tra l’alto lago montano e tranquillo e il basso e vivace lago collinare. Quassù doveva torreggiare la fortezza costruita nel Quinto Secolo, l’inespugnabile castello dove Turisendo dei Turisendi nel 1162 resistette un anno all’assedio di Federico I Hohenstaufen detto Barbarossa, il maniero che l’imperatore Enrico VI vendette per settecento marche d’argento al Comune di Verona e che nel 1209 Ottone IV demolì, forse per vendicare l’antica progenitrice, Adelaide di Borgogna. Rinchiusa nella Rocca del Garda, alla regina vennero ridotte le razioni di cibo. Prigioniera, Adelaide visse confortata solo dalla compagnia di una serva e di un frate, il monaco Martino. Fu egli a permetterle di fuggire, scavando a colpi di scalpello un cunicolo che conduceva in un luogo appartato della collina.I Gardesani lo chiamano el cesiol o la grotta di Adelaide. Mi chiedo dove sarà, nel segreto della Rocca. Le gallerie militari in cui mi infilo si aprono a una vista sul meraviglioso basso lago, ma la parete strapiomba: è impossibile scendere di qui. Mi rassegno, la Rocca custodisce il segreto del cesiol. Scendo a Garda per il sentiero dove ora salgono correndo i salutisti del jogging. Sulla riva del lago non c’è più pace, l’andirivieni dei turisti fagocita ogni cosa. Le voci coprono le grida dei gabbiani, i rombo dei motori lo sciabordio delle onde.Adelaide ricevette aiuto da un pescatore che la imbarcò sulla sua piccola barca e, nottetempo, le fece attraversare il lago, inseguita da Berengario e i suoi scagnozzi. Un vento sotterraneo e misterioso si levò dalle acque sospinse Adelaide verso la salvezza, mentre i suoi inseguitori vennero avvolti dalla nebbia. Quel vento, racconta la leggenda, da quel giorno si alza ogni sera e permette di raggiungere in una notte tutti i luoghi del Garda. Non è l’Ora, alito che soffia da sud, da mezzogiorno a sera, non è l’impetuoso Pelér che pela il Lago da Nord, avanzando come un leone, non è l’Andèr, vento che se soffia dal bresciano nel primo pomeriggio annuncia bel tempo ma se soffia fuori orario porta tempesta perché l’Andèr l’è balander, non è nemmeno il Balì, il vento del tempo bello, fresco e asciutto che viene e va in tre giorni, né la Vinèsa, vento impetuoso che soffia a raffiche dal basso lago e porta tempesta, né la Visentina che l’è ladra o assassina, non è nemmeno il Ponàl che, come dice un altro proverbio, no’l porta altro che mal. Il vento che spinse lievemente la barca di Adelaide verso Sirmione non ha nome. Per riconoscerlo bisogna navigare di notte, in solitudine, e lasciarsi portare dalle onde e dalla fantasia.«Ecco, la verde Sirmio nel lucido lago sorride, / fiore de le penisole», cantò Giosuè Carducci. Sbarcata sulla penisola, Adelaide raggiunse e attraversò agevolmente la Selva Lugana, io a fatica mi muovo nella selva di caffè e gelaterie tra una folla imbizzarrita. Lei, la regina, si districò in fretta tra la boscaglia e raggiunse lo Stagno del Lavagnone, a Desenzano, o forse l’antico monastero di Lonato, o addirittura la fortificata Peschiera. Sia come sia, Adelaide arrivò fino alla Reggia dei Canossa, sull’Appennino Reggiano. Qui chiese protezione a Ottone il Grande, re di Germania, che se la sposò. I due vennero incoronati ...
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  • Lucrezia e Margherita al Lazzaretto
    Oct 25 2025
    Aveva preso in affitto una misera stanza in Via San Salvatore Corte Regia Francesco Cevolini, mercenario al soldo dei Lanzichenecchi, dopo aver rubato, così raccontano le antiche cronache, un fagotto di stracci agli Alemanni. Stracci infetti, evidentemente. Sulle rive dell’Adige lo ospitava tale Lucrezia Isolani. Quando, pochi giorni dopo, lo trovarono morto nel suo letto, il mercenario aveva già contagiato Lucrezia e la sua figliola, Margherita. Era il 15 marzo 1630 e la peste entrava a Verona. Brilla l’Adige ai primi raggi del sole che sorge dietro al campanile di San Tomaso Becket. Lo guardo percorrendo il Lungadige Rubele e immagino i barconi colmi di appestati, con i barcaioli a debita distanza, a proteggersi con uno straccio la bocca per evitare il contagio. Sulla pala d’altare che nel 1636 il Comune commissionò ad Antonio Giarola, custodita nella basilica di San Fermo Maggiore, si vedono galleggiare i cadaveri lungo l’Adige, mentre una donna vestita di giallo e blu, a simboleggiare Verona, con il Leone Marciano affranto ai suoi piedi, invoca Maria che trattenga Cristo dallo scagliare le frecce scarlatte della punizione divina sulla città. «Il male invisibile», lo definì lo storico Carlo Maria Cipolla. «Il gran castigo di Dio», da cui era inutile tentare di sottrarsi. Quella che nel 1630 colpì l’Italia Settentrionale, provocando più di un milione di morti, fu una peste bubbonica, la stessa raccontata da Manzoni ne I promessi sposi. A Verona morirono più di trentamila persone su una popolazione di cinquantamila abitanti. Entrando nel Quartiere Filippini penso a cosa doveva aver visto, in quei giorni, il medico Francesco Pona quando scrisse le sue cronache nel libro Il Gran Contagio di Verona: «I cenci più sordidi, le più rozze, lacere, e rifiutate vestimenta, i più schiffi, e squarciati letti, et i più succidi origlieri si vedeano innanzi alle case, semiusti, e tra cieche et orride fiamme ammorbar di fetente fumo le contrade intiere...».Anche Lucrezia, portando in grembo la piccola Margherita, guardava quelle scene miserevoli mentre percorreva la strada per arrivare alla Chiesa del Cristo. Oggi non è rimasta che una targa a indicare la chiesa in cui, sul luogo dove con una lisca di pesce vennero decapitati i santi Fermo e Rustico, v’era il crocifisso miracoloso che gli appestati e i lebbrosi invocavano prima di essere imbarcati sull’Adige per il pietoso viaggio verso il Lazzaretto.L’idea di costruire un nuovo lazzaretto (o nazzaretto) propinquo al fiume Adige venne presa dal Consiglio dei Dodici e dei Cinquanta il 7 gennaio 1539. Fino ad allora, in caso di pestilenze i contagiati venivano rinchiusi nei casotti di legno di San Zeno e di Campo Marzio, altri nell’Ospedale di Sant’Agnese in Piazza Bra o nella Domus Pietatis in Piazza Dante, altri ancora nel vecchio Ospedale dei Santi Giacomo e Lazzaro, nel quartiere di San Pancrazio, detto «San Giacomo alla Rogna». Quando, nel 1517, i Veneziani realizzarono la così detta Spianà, abbattendo tutte le abitazioni e le piante ad alto fusto nel perimetro di un miglio intorno alla città, anche l’ospedale venne demolito e ricostruito nel quartiere di Borgo Roma e da allora si chiamò “San Giacomo alla Tomba”.La nuova struttura ospedaliera era stata terminata pochi decenni prima. Dal 1539, infatti, passarono otto anni prima che i tre incaricati del comune che dovevano scegliere il luogo dove costruire il Lazzaretto riferissero ai Consigli d’avere individuato all’interno dell’ansa dell’Adige un posto adatto, lontano dalle abitazioni nobiliari, raggiunto dal fiume che avrebbe permesso il trasporto degli ammalati senza il rischio che contagiassero altri cittadini. È probabile che il progetto di questo immenso ospedale, il più grande lazzaretto d’Italia dopo quello di Milano, fosse stato affidato fin da subito a Michele Sanmicheli che già stava lavorando in città. Vasari, nelle sue Vite, afferma che il progetto approvato dai rettori era stato ridimensionato dall’amministrazione cittadina. Non è dato sapere se l’ospedale terminato nel 1603, e costato più di ottantamila ducati, fosse quello progettato dal grande architetto veronese. A un approdo sul fiume, oggi invisibile tra il fitto della vegetazione, sbarcavano gli ammalati.Da lì una stradina conduceva fino alle mura del Lazzaretto. La cerco tra le sterpi e, districandomi tra i rovi, intravedo ciò che resta delle mura di cinta dell’ingresso occidentale. Penso a Dante e a quell’iscrizione perentoria sulla porta dell’Inferno: «Lasciate ogne speranza voi ch’intrate». Penso a Lucrezia e a sua figlia che, come tutti contumaciati che dovevano trascorrere in questo luogo dai 7 ai 40 giorni di quarantena, si dovettero spogliare delle loro povere vesti e raggiungere una piccola cella, tra le 152 che si aprivano sul chiostro di 239 per 117 metri che circondava lo spazio centrale, suddiviso da quattro mura oblique in quattro zone isolate tra ...
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  • La fada Calamita
    Oct 18 2025
    l Santo camminava tra i prati e le contrade, lui su un cavallo bianco, il suo segretario su un cavallo nero. Il Papa lo aveva inviato a Trento dove, nella grande basilica, vescovi e cardinali non riuscivano a portare a termine il Concilio. Tra di loro, vestito da frate, vi era il diavolo che con le sue parole ingannatrici seminava la discordia. L’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo era già in odore di santità. Ecco che il Santo Padre era certo che recandosi a Trento avrebbe sconfitto Lutero e i suoi seguaci che predicavano che «el papa no’ l’era el Cristo in tera» e avrebbe portato a termine il Concilio. La chiesetta dedicata a San Carlo Borromeo, a Camposilvano, lungo l’antica strada che conduce ai pascoli alti della Lessinia, è un indizio del passaggio dell’Arcivescovo. Ma perché a Camposilvano? E perché salire sulle montagne della Lessinia per arrivare a Trento?Vi erano i briganti ad aspettarlo alla Chiusa di Ceraino e fu uno di loro, fedele al papa, ad andare incontro a San Carlo e ad avvertirlo del pericolo. Così l’Arcivescovo decise di salire sulle Sine (i Lessini), percorrere il Vaio di Squaranto e la Strada Cavallara arrivando proprio a Camposilvano. Chiesta ospitalità per la notte, a sera San Carlo si sentì raccontare dalla gente del posto le storie delle fade, esseri malefici che rapivano i bambini incustoditi, strangolavano le donne con fazzoletti di seta e tenevano prigionieri i montanari. Immagino, davanti alla chiesetta, il santo seduto su uno scranno, con intorno un capannello di persone. Mi chiedo se la gente di Camposilvano gli parlasse in tauc, l’antico dialetto alto-tedesco, il così detto cimbro, e come fossero riusciti quei contadini e boscaioli a spiegare a San Carlo che le fade un tempo erano solidali con gli uomini, avevano insegnato loro il segreto per fare il formaggio con il caglio e regalavano alle donne gomitoli di lana che non finivano mai.Fu a causa della curiosità e la malizia di alcuni giovanotti che diventarono ostili. Aspettatele fuori della stalla dove partecipavano al filò, vennero loro strappati di dosso i meravigliosi abiti per vederne il corpo e scoprire così che le bellissime ragazze arano pelose, con vipere vive al posto delle cinture e le zampe come quelle di una capra. Ecco che, da allora, si vendicarono con i montanari tormentandogli in ogni modo. I massi del Vaio delle Buse sono dipinti di giallo dal primo sole d’autunno. Tra queste pietre friabili, che qualcuno chiama sfingi, gli orchi andavano a spiare le fade mentre, nude, si lavavano nella pozza d’acqua. Cerco lo spioncino da dove gli orchi le guardavano segretamente ma non lo trovo. Da qui, dove avevano la loro dimora, le fade vennero poi scacciate proprio da San Carlo Borromeo quando, arrivato a Trento, scagliò la sua maledizione contro di loro e le costrinse a vivere nel Cóvolo di Camposilvano, la grande caverna che perfino Dante visitò, trovandone ispirazione per il suo Inferno.Quante volte sono sceso nel Cóvolo? E quante storie ho cercato qui, protetto da questa immensa corona di roccia che strapiomba nel buio del sottosuolo? Ricordo Attilio Benetti, indimenticabile ispiratore, consigliere e amico, quando raccontandomi la storia di Calamita mi indicava la fessura nella parete di roccia dov’ella, che aveva il dono di potersi trasformare in essere incorporeo, poteva passare per entrare nella sua sontuosa dimora. Un tempo era costei ella stessa una fada ma per i suoi meriti (aveva insegnato ai montanari a fare la ricotta) fu trasformata da San Carlo in una donna bellissima che non invecchiava mai. La sua abitazione era scavata nella roccia, nell’antro più segreto del Cóvolo, le pareti delle stanze erano rivestite di cristalli, sulla cappa del camino vi era appeso uno schioppo con il calcio di lamine d’oro e su uno scaffale di legno stava in bella mostra il Libro del Diavolo. Calamita possedeva, infine, una vecchia pignatta nera che si riempiva di ogni cosa desiderata soltanto sfiorandola con due dita e recitando le parole magiche.Ma, pur avendo tutto ciò che desiderava, Calamita era sola. Così decise di sposarsi con un montanaro che le fosse piaciuto. Si vestì riccamente, con una abito di seda del Trentin e uno scialle ricamato d’oro, grazie ai suoi poteri uscì dalla stretta fessura nella roccia e raggiunse un crocevia.Cammino verso la Valsguerza. Penso alla cava di marmo giallo reale che l’avrebbe devastata e avrebbe distrutto l’antica carrareccia se, ventitré anni fa, in migliaia non avessimo camminato in silenzio per salvarla. Al crocevia della Crose del Galo immagino Calamita aspettare che passasse di lì qualcuno che le piacesse. Passò un giovane e vedendo una donna così bella, di notte, fuggì a gambe levate per andare a rifugiarsi in una stalla e raccontare, pallido per lo spavento, d’aver incontrato un’anima purgante venuta a intercedere per i suoi peccati. Calamita pensò d’averlo spaventato a causa dei suoi abiti preziosi, tornò...
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    18 min
  • Toni Sberla
    Jun 3 2025
    Salivano di notte da Ala per l’impervio sentiero della Valbona fin sui pascoli alti della Lessinia i contrabbandieri, per sfuggire alle guardie del confine tra il Regno Lombardo Veneto e l'Impero Austroungarico. Dopo il 1866, per procurarsi a un prezzo ragionevole zucchero, caffè, tabacco, sale, pepe e spirito, i montanari diventarono fuorilegge per fame e miseria. Tra di loro si racconta di Toni Sberla e di come riuscì a mettere l’uno di fronte all’altro un contrabbandiere e un finanziere e far capire a entrambi d’essere solo due pori cani. Alessandro Anderloni racconta e cammina la sua storia.
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    18 min
  • Il Brigante Falasco
    May 26 2025
    Aveva la sua tana sulle cenge a strapiombo sull’alta Valpantena. Era un uomo dalla fama obbrobriosa, crudele e spietato. Nel 1675, su mandato dei conti Giusti di Santa Maria in Stelle, rapì la bella Angiolina Leonardi. Prestava i suoi servigi come bravo per i signorotti della valle, tra cui il potente Conte Alegro che aveva la sua villa a Cuzzano, meschino e spregiudicato non meno dei suoi buli. Alessandro Anderloni cammina la storia del Brigante Falasco, da Poiano alla sua torre sopra Grezzana.
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    17 min
  • Il Serraglio
    May 22 2025
    A metà del Trecento, gli Scaligeri costruirono un’imponente muraglia che collegava Borghetto, il castello di Valeggio e quello di Villafranca e che doveva arrivare fino alla Rocca di Nogarole. Un bastione difensivo di centocinquanta torri, lungo il corso del Tione dei Monti e delle Valli, a prolungare le difese naturali del Garda, del Mincio e delle paludi di Grazzano. Alessandro Anderloni cammina sulle tracce delle antiche e scomparse mura del Serraglio Scaligero.
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  • Madonna della Corona
    May 13 2025
    È stato definito il Santuario più ardito d’Italia. Qui, secondo leggenda, nella notte del 24 giugno 1522 apparve, in una nicchia nella roccia a strapiombo sulla Val d’Adige, la statua dell’Addolorata scomparsa lo stesso giorno dall’isola di Rodi. Alessandro Anderloni percorre la via dei pellegrini che scendono dal Corno d’Aquilino e risalgono i 1672 scalini che da Brentino portano lassù, al Santuario appeso alla roccia.
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    16 min