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Il podcast del diacono Davide Moreno

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Auteur(s): Davide
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Il Vangelo della domenica commentato: riflessioni e approfondimenti spirituali di un diacono permanente della diocesi di Bologna. Ogni settimana un nuovo episodio per nutrire la fede e scoprire insieme come la Parola di Dio illumina la nostra vita quotidiana. Un invito ad ascoltare, meditare e camminare insieme nel percorso di fede, riscoprendo la bellezza e la saggezza del messaggio evangelico.si Christianisme Pastorale et évangélisme Spiritualité
Épisodes
  • OMELIA XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
    Jul 20 2025
    Cosa conta davvero nella vita cristiana? Il fare o l’essere? Il servizio o l’ascolto?
    La liturgia di questa domenica ci conduce dentro una delle scene più intime e disarmanti del Vangelo: Marta e Maria accolgono Gesù nella loro casa. È un frammento domestico, familiare, e proprio per questo profondamente universale. Ci riguarda tutti.Molti di noi si riconoscono immediatamente in Marta: operosa, attenta, generosa, ma anche stanca, affaticata, carica di un’inquietudine che lentamente diventa giudizio. Maria, invece, sembra inattiva, quasi impassibile. Eppure è lei a scegliere, secondo Gesù, “la parte migliore”.Per comprendere davvero questa pagina evangelica, bisogna liberarla da letture moralistiche o semplificanti. Non è il racconto di una sorella buona e una sorella cattiva, né l’invito a scegliere tra l’azione e la contemplazione. È, piuttosto, una chiamata alla verità del cuore.Gesù non rimprovera Marta per il suo servizio — che resta necessario e prezioso — ma per l’agitazione interiore che lo accompagna. Quell’affanno che nasce quando perdiamo il centro, quando ci sentiamo soli nel nostro agire, quando iniziamo a misurare l’amore in termini di sforzo e fatica.Il testo usa un verbo forte: perispáō (in greco), che indica un essere “tirati da ogni parte”, come dilaniati interiormente. È l’immagine perfetta della vita moderna: pieni di cose da fare, divisi tra mille urgenze, ma spesso distanti da noi stessi e da Dio.Maria, invece, si siede. Non per pigrizia, ma per riconoscere la priorità assoluta: stare alla presenza del Signore. È un gesto teologico, prima che emotivo. Significa che l’ascolto precede il servizio, che l’identità precede l’efficienza, che la relazione con Cristo è la sorgente da cui scaturisce ogni vero agire cristiano.Questa pagina, letta in chiave più profonda, non oppone Marta a Maria, ma invita alla sintesi: un cuore che serve senza smarrire l’ascolto, un’anima che ascolta per servire con libertà. È lo stile di ogni autentico discepolo: non l’ansia della prestazione, ma la fecondità dell’incontro.In fondo, non si tratta di scegliere tra due modelli, ma di riconoscere che prima di fare qualcosa per Dio, dobbiamo imparare a stare con Dio.E allora questa omelia si trasforma in un invito chiaro, essenziale, disarmante:
    Quando è stata l’ultima volta che ti sei seduto?
    Non per controllare il telefono.
    Non per organizzare la giornata.
    Ma solo per ascoltare la voce di Dio che ti chiama per nome.Il rischio non è solo smettere di credere. È smettere di ascoltare. Perché senza ascolto, anche la fede si svuota. Diventa rumore di fondo. Presenza silenziosa, ma priva di relazione.Gesù non condanna l’azione, ma ci ricorda che se il nostro fare non nasce dallo sguardo, dalla sosta, dal silenzio, diventa peso. E ci logora.“Di una cosa sola c’è bisogno.”Questa è la verità profonda del Vangelo di oggi.
    Tutto passa: le corse, le incombenze, i doveri.
    Ma lo sguardo di Dio dentro di noi… resta.È il momento di fermarsi.
    Di ascoltare.
    Di ritrovare sé stessi nei piedi di Cristo.
    Perché solo così, quando ci rialzeremo,
    il nostro servizio non sarà più affanno,
    ma frutto di un amore che sa da dove viene, e per Chi vive.
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    6 min
  • OMELIA DELLA XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
    Jul 13 2025
    “Chi è il mio prossimo?”
    È questa la domanda che introduce il Vangelo di questa domenica (Lc 10,25-37). Ma attenzione: non è una domanda innocente. È la domanda di un dottore della Legge che vuole mettere alla prova Gesù, cercando di circoscrivere, delimitare, ridurre l’ampiezza dell’amore evangelico a una misura che sia sopportabile, gestibile, rassicurante.Gesù non risponde direttamente. Come spesso accade, scardina la logica della domanda con una parabola che disarma, capovolge e converte: quella del buon Samaritano.Un racconto che conosciamo a memoria – tanto da rischiare di non ascoltarlo più davvero – e che oggi, invece, si riapre con forza interrogante. Perché non è semplicemente un invito a essere “bravi e buoni”, ma una provocazione radicale: da che parte sto io?
    Nel Vangelo, il Samaritano non si interroga su chi meriti il suo aiuto. Semplicemente, si ferma, vede, si commuove, tocca, cura. Si fa prossimo. E proprio in questo verbo – farsi prossimo – è racchiuso il cuore teologico del testo.L’“essere prossimo” non è una categoria geografica, ma esistenziale.Non si tratta di chi ci è vicino per legami di sangue, affinità o vicinanza fisica, ma di chi si lascia toccare dalla sofferenza dell’altro. Chi rompe il recinto della propria sicurezza e si rende vulnerabile per l’altro. È un gesto che ci rimanda, in filigrana, al mistero stesso dell’Incarnazione: Dio non ha salvato l’umanità da lontano, ma facendosi prossimo, entrando nel dolore, toccandolo con mani umane.Nel comportamento del Samaritano possiamo intravedere una cristologia implicita: egli è figura di Cristo, che si china sull’uomo ferito, lo solleva, lo fascia, lo affida alla cura della comunità (l’albergo come immagine della Chiesa) e promette di tornare. Ma in controluce, il Samaritano è anche l’icona di ogni battezzato, chiamato a imitare il Signore non con parole, ma con gesti concreti, con compassione operosa.Il sacerdote e il levita – figure religiose per eccellenza – non mancano di conoscenze teologiche, né sono necessariamente persone cattive. Ma rappresentano una fede che resta sterile se non si traduce in carità, una religione che si rifugia nella purezza cultuale per non contaminarsi con il dolore della storia. E questo è l’abisso in cui rischiamo di cadere anche noi, ogni volta che separiamo Dio dall’uomo, il culto dalla vita, la liturgia dalla misericordia.Ecco allora il vero centro dell’interrogativo evangelico:
    Non chi è il mio prossimo, ma se io mi comporto da prossimo.
    Non chi ha diritto alla mia attenzione, ma se io sono disposto a farmi dono anche dove nulla mi verrà restituito.È la logica della croce, non del tornaconto.La parabola ci conduce così dentro una teologia della cura, in cui la salvezza non è mai individuale ma relazionale, e in cui la prossimità diventa via mistica: non si accede al mistero di Dio senza passare attraverso le ferite dell’umanità.Per questo, l’omelia di oggi non si accontenta di raccontare, ma chiama. Chiama a una decisione concreta, urgente, quotidiana:
    “Chi è il ferito sul mio cammino, oggi?”
    Non in astratto, non nel mondo, ma nella mia famiglia, nel mio luogo di lavoro, nella mia comunità, nei margini che mi è più comodo ignorare.E soprattutto: io, da che parte sto?
    Sono colui che passa oltre?
    O colui che si ferma, che perde tempo, che si lascia ferire dal dolore dell’altro?È lì che si gioca la verità del nostro discepolato. È lì che la Parola si fa carne nella nostra carne. E solo lì il Vangelo smette di essere una bella teoria… e diventa vita vissuta.
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    7 min
  • OMELIA DELLA XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
    Jul 6 2025
    La riflessione di questa domenica del Tempo Ordinario si concentra sulla missione dei settantadue discepoli in Lc 10,1-20, sviluppando una teologia della missione che trasforma l'invio evangelico in paradigma per la testimonianza cristiana contemporanea. L'omelia utilizza un linguaggio poetico ed evocativo che sottolinea la "strana bellezza" di un Vangelo incentrato non sui prodigi ma sui "cammini da percorrere" e sugli "incontri possibili". L'analisi esegetica evidenzia alcuni elementi chiave del testo lucano: l'invio "a due a due" come principio di ecclesialità ("la fede cammina in compagnia"), la condizione di vulnerabilità ("come agnelli in mezzo ai lupi") e l'essenzialità dei mezzi ("senza borsa, né sacca, né sandali"). Questi elementi vengono interpretati come decostruzione del modello missionario trionfalistico in favore di una testimonianza basata sulla fragilità condivisa e sulla rinuncia all'autosufficienza. Particolare originalità caratterizza l'interpretazione della "pace" come "primo miracolo del Vangelo", definita non come "assenza di conflitto" ma come "presenza di Dio", non come "silenzio" ma come "armonia profonda tra ciò che siamo e ciò che desideriamo". Questa definizione antropologica della pace evangelica supera le concezioni meramente negative per giungere a una comprensione ontologica della shalom biblica. Il cuore teologico della riflessione analizza il mandato di "guarire i malati" in chiave spirituale ed esistenziale: "possiamo essere guaritori dell'anima", "mani tese, sguardi veri, presenze che non scappano". Questa interpretazione democratizza il ministero della guarigione, rendendolo accessibile a ogni credente attraverso la semplice "vicinanza a chi non si aspetta più niente". L'elemento più significativo è l'esegesi del ritorno entusiastico dei discepoli e della risposta di Gesù che riorienta la gioia dai "successi" al "legame" con lui: "Non rallegratevi perché i demòni si sottomettono a voi, ma perché i vostri nomi sono scritti nei cieli". Questa correzione viene interpretata come distinzione fondamentale tra efficacia missionaria e identità cristiana, tra "ciò che fate" e "ciò che siete per me". La conclusione propone un'attualizzazione della missione attraverso il rovesciamento della logica di cristianizzazione: "non di portare il mondo in chiesa, ma di portare la Chiesa nel mondo", non "con l'arroganza di chi sa" ma "con la tenerezza di chi ha incontrato la Luce". Questa ecclesiologia missionaria privilegia la testimonianza esistenziale sulla proclamazione verbale, la "mitezza" sulla "forza". L'interpretazione finale che identifica ogni credente tra i "settantadue" e propone come criterio di verifica missionaria non i risultati ma la capacità di "camminare con Lui" nella quotidianità, trasforma la missione da attività straordinaria a dimensione ordinaria dell'esistenza cristiana, fondata sulla certezza che "anche i nostri nomi, scritti nel cielo, ci sorrideranno in silenzio".


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    6 min

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