Page de couverture de OMELIA XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

OMELIA XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

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“Signore, insegnaci a pregare.”
È da questa supplica semplice e disarmante che si apre il Vangelo di questa domenica. Non una domanda teorica, non una curiosità spirituale, ma un grido che nasce da una mancanza, da un’esperienza concreta di limite, di vuoto, di bisogno di Dio.I discepoli non chiedono a Gesù di insegnare loro a parlare alle folle o a compiere miracoli. Chiedono l’unica cosa davvero essenziale: imparare a pregare. Perché — e questo è il nodo teologico — senza preghiera, anche le opere più belle si svuotano di senso. Senza intimità con Dio, ogni gesto rischia di diventare attivismo.Gesù non risponde con una lezione, né con una teoria. Ma con una parola. Una sola parola che racchiude il cuore di tutta la fede cristiana: Padre.Qui si gioca tutto.La preghiera non comincia da un bisogno, ma da un'identità. Pregare è ricordare chi siamo: figli, non orfani. E se Dio è Padre — un Padre buono, presente, fedele — allora possiamo fidarci. Possiamo parlare con Lui senza paura, senza finzioni, senza maschere. Possiamo portare a Lui anche le nostre miserie, le nostre fragilità, le nostre domande rimaste in sospeso.Nel contesto lucano, la preghiera del Padre Nostro viene consegnata come la grammatica dell’affidamento, la sintassi della relazione con Dio. Non è un insieme di formule, ma un’educazione alla fiducia, al desiderio, alla sobrietà del cuore.“Dacci ogni giorno il nostro pane…”
È l’abbandono radicale del cuore del discepolo alla provvidenza divina. È la rinuncia al controllo sul domani. È la richiesta di imparare a vivere l’oggi con apertura, senza affanno. In questo versetto riecheggia l’Esodo: come la manna era sufficiente per un solo giorno, così anche il pane della fiducia non si accumula: si riceve nel presente.E poi la richiesta del perdono: “Rimetti a noi i nostri peccati, come anche noi li rimettiamo…”
Qui Gesù compie un rovesciamento profondo: il perdono non è solo una grazia ricevuta, ma anche una grazia trasmessa. La preghiera non è vera se non scava nel cuore abbastanza in profondità da sciogliere anche i nodi del risentimento.
Chi non sa perdonare, dice il Vangelo, non può conoscere davvero il volto del Padre. Perché il Dio di Gesù Cristo è un Dio che non tiene in mano le colpe, ma le assorbe. Le assume. Le vince con la misericordia.Il Vangelo, poi, si fa parabola. Un amico che bussa a mezzanotte. Un altro che si rifiuta di alzarsi. E infine, la sorpresa: l’insistenza vince la resistenza. Ma qui Gesù non sta paragonando Dio a un uomo infastidito. Sta mostrando come il nostro cuore ha bisogno di imparare a bussare, a non cedere, a non arrendersi troppo in fretta.La preghiera non serve a cambiare Dio. Serve a cambiare noi.È un lavoro lento, silenzioso, trasformante, come un chiodo che batte la pietra finché non la fende. Pregando, ci lasciamo lavorare dallo Spirito. E piano piano, qualcosa dentro si apre.È a questo punto che Gesù pronuncia la frase più sconvolgente del brano: “Quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!”Questa è la vertigine del testo. Non ci viene promesso che otterremo tutto ciò che chiediamo…
Ci viene promesso qualcosa di meglio: ci verrà dato lo Spirito Santo.
Il dono che contiene ogni altro dono.
Il respiro di Dio dentro di noi.E allora, la domanda si fa esistenziale, radicale, spiazzante:
A chi sto davvero bussando nella mia vita?
Dico “Padre”… ma vivo come se fossi solo?
Prego… ma poi confido solo nelle mie forze?
Invoco… ma poi mi chiudo?Questa omelia non offre risposte facili. Ma ci restituisce la verità profonda della preghiera: essa è il grembo nel quale nasce la fiducia, il luogo in cui smettiamo di controllare e cominciamo a consegnarci.Il vero miracolo non è che Dio cambi idea.
Ma che noi, finalmente, ci lasciamo amare.
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