Épisodes

  • Ep. 86 – Andrea Passenger: Torino, la musica e la ricerca di una consapevolezza sonora
    Nov 11 2025

    Andrea Di Maggio, in arte Andrea Passenger, vive a Torino da venticinque anni. È arrivato da Montegrosso d’Asti, con un amore per la musica che nasce tra cassette comprate in spiaggia e i primi vinili ascoltati fino a consumarli. Da appassionato è diventato produttore, DJ, fondatore di etichette come Light Touches, Icon of Desire e Dora Exp.

    La sua storia è quella di chi ha fatto della musica un modo per comprendere il mondo. “Torino mi accoglie e mi ospita, ma c’è sempre stato un rapporto di reciproco studio”, racconta. “È una città che a volte è dura, chiusa, ma anche profondamente ispirante.”

    Passenger non vede la musica come semplice intrattenimento. “Non e’ neutra. Ogni ritmo ha una storia, ogni suono un’origine.” Da questa idea è nato Better Days, il progetto all’Imbarchino che mescola talk e musica, raccontando le radici della disco, dell’house, dalle comunità afroamericane e queer. “Voglio che chi balla sappia da dove arriva quella musica. Non vale tutto.”

    La sua è una ricerca di consapevolezza e responsabilità culturale. “Viviamo tempi in cui serve ritrovarsi in modo più umano e reciproco. Io cerco di farlo attraverso la musica.”

    Nel suo percorso, Andrea si definisce più artigiano che artista: un ponte tra persone e idee. Ha collaborato con realtà come Jazz:Refound e TUM, sempre alla ricerca di un equilibrio tra libertà e appartenenza. “Mi piace esplorare, restare permeabile. Andare a scoprire giovani DJ, suoni nuovi. È così che resto vivo.”

    Il DJing, per lui, resta una forma di dialogo. “La mia ricerca è guidata dall’intensità. Voglio musica densa, vera, che mi smuova.” Nei suoi set convivono soul, house, broken beat, jazz e suoni africani. E quando mette i 45 giri, dice, “mi diverto di più: devi essere sul pezzo, rischiare. È lì che senti la vita nella performance.”

    I suoi viaggi lo hanno portato a suonare in Europa e in Giappone. “Lì il pubblico ascolta davvero. Ti seguono con attenzione, con rispetto. È un’esperienza diversa da quella europea, dove la musica è più legata all’intrattenimento.”

    La frase che lo rappresenta di più arriva da un amico: “Il DJ è un cameriere della musica”. Andrea sorride, ma ne riconosce la verità. “Abbiamo una responsabilità: proporre, ma anche far star bene le persone. Quando riesci a essere radicale e divertente allo stesso tempo, lì nasce la magia.”

    In un’epoca in cui tutto è consumo veloce, Andrea Passenger è un artigiano dell’ascolto. E Torino, con la sua lentezza e le sue ombre, resta la cornice ideale per chi non smette di cercare un suono che racconti qualcosa di vero.


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    31 min
  • Ep. 85: Guido Saracco – Torino, università e la cultura che costruisce fiducia
    Nov 4 2025

    Torino funziona quando sovrappone mappe: accademia, impresa, teatri, musei, media. Con Guido Saracco questa logica diventa metodo. Scienziato, ex rettore riformatore, oggi curatore che tratta la cultura come infrastruttura civica. “Da rettore mi sono trovato di fronte alla necessità di cambiare: il mondo corre, siamo nell’era dell’incertezza.” Il cambiamento non è solo contenuti, è metodo: didattiche attive, interdisciplinarità, contatto con problemi reali.Il punto non è “spiegare la tecnologia” dall’alto, ma metterla in scena in contesti che generano comprensione e fiducia. Così nasce il Festival della Tecnologia (2019) e poi Biennale Tecnologia, che ad aprile 2026 porterà in città un percorso sull’IA e il rapporto con l’umano, con mostre e collaborazioni tra istituzioni. Non un evento-isola, ma una filiera che intreccia linguaggi: mostre, incontri, produzioni, scuole.Accanto alla Biennale, Saracco spinge Prometeo – Tech Cultures: l’università che produce cultura insieme ai professionisti del settore. “Coltiviamo scienza e tecnologia con la ricerca, le insegniamo e adesso facciamo cultura per alzare la consapevolezza.” In pipeline cinque opere teatrali e due cinematografiche con esiti anche televisivi; partner come Teatro Stabile, TPE, Teatro Astra, artisti come Marco Paolini. Non vetrine, ma dispositivi che rendono i temi complessi più agibili, là dove spesso dominano ansia e polarizzazione.Questa visione nasce da una riforma profonda della formazione. Con Grandi Sfide al secondo anno, tecnologi e umanisti lavorano insieme; una scuola interna di pedagogia aggiorna i docenti su attenzione ed emozione nell’era del bombardamento informativo. L’ingegnere che immagina non è solo progettista: legge gli effetti sociali non intenzionali della tecnologia e lavora in team multidisciplinari. Il suo percorso personale lo conferma: dalla chimica (CO₂ come materia prima) ai libri “Chimica Verde 5.0” e “Tecnosofia” con Maurizio Ferraris, la traiettoria è ibridare saperi per governare le transizioni.L’intelligenza artificiale è il banco di prova. Opportunità di potenziamento dell’umano, ma anche rischio di concentrazione del potere e perdita di libero arbitrio. Qui Saracco propone una “slow artificial intelligence”: non un modello onnisciente, ma un alleato personale, in mano all’utente, che cresce con lui, con poche allucinazioni e conoscenza aderente ai percorsi reali. È il cuore del nuovo libro “Alleati digitali. La nostra IA personale”. “Non abbiamo bisogno di un LLM che sappia tutto, ma di una buona logica e di un patrimonio cognitivo utile.”Tecnologia come infrastruttura sociale significa anche guardare alla generazione della cura: figli disorientati, genitori più longevi, risorse scarse. “La tecnologia può aiutare, ma non sostituire la relazione.” Robotica di assistenza, telemedicina, strumenti che sostengano l’umano senza togliergli scena.Il disegno culturale si appoggia su luoghi concreti: l’accordo con l’Accademia delle Scienze e uno studio televisivo sul tetto del palazzo (con led wall e dotazioni professionali) pensato come risorsa aperta per la città. “Si chiama terza missione: portare contenuti seri che diano conforto, consapevolezza e fiducia nella scienza e nella tecnologia.”Resta un tratto umano che tiene insieme tutto: disciplina, equilibrio, lavoro su di sé come parte della stessa pedagogia che chiede a istituzioni e cittadini. La riforma della didattica, la produzione culturale, l’ibridazione dei linguaggi hanno una premessa comune: creare condizioni affinché la tecnologia sia scelta, non subita.

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    24 min
  • Ep. 84: Marzia Camarda - Torino e l'industria culturale: tra tradizione e innovazione
    Oct 28 2025

    Nell’episodio 84 di Torino e Cultura ho conversato con Marzia Camarda, una delle figure più incisive del panorama culturale italiano e torinese. Editor di professione, Camarda è responsabile editoriale del progetto Prometeo del Politecnico di Torino, presidente dell’Italian Cultural Content Industry e autrice del Dizionario di genere (Settenove).La sua visione parte da una convinzione chiara: la cultura non è solo un valore simbolico, ma può e deve diventare industria. Torino, dice, ne è la prova: “La capacità di trasformare la cultura in industria, dall’editoria al cinema alla musica, è nel DNA della città.” E ricorda come proprio qui sia nata la prima enciclopedia italiana, simbolo di un sapere che non resta nei libri ma diventa progetto collettivo.Questa eredità, per Camarda, non è nostalgia, ma identità produttiva: la base su cui costruire un presente in cui rigore intellettuale e spirito imprenditoriale convivono. È in questo solco che si inserisce il lavoro dell’Italian Cultural Content Industry, nata per mettere in rete le filiere creative — editoria, cinema, musica, fotografia, tecnologia — e farle dialogare. Un ecosistema fluido dove la contaminazione è valore e la collaborazione diventa metodo.“Serve la capacità di aprire linguaggi e mondi diversi”, sottolinea. Non per perdere la propria identità, ma per arricchirla. La cultura, in questa visione, non è più un comparto isolato: è una rete dinamica che attraversa discipline e pubblici, connettendo economia, ricerca e immaginazione.Un esempio concreto è Prometeo, il progetto del Politecnico di Torino che Camarda guida sul piano editoriale. È un laboratorio narrativo dentro un’università tecnica: un esperimento di comunicazione del sapere che traduce la complessità della ricerca in contenuti accessibili e coinvolgenti. “L’università non deve solo produrre conoscenza,” dice, “deve imparare a raccontarla.” Prometeo dimostra che anche l’innovazione tecnologica può diventare cultura, se raccontata nel modo giusto.Accanto a questo lavoro, Camarda porta avanti da anni un impegno profondo per la parità di genere. Il suo Dizionario di genere rappresenta il più grande censimento internazionale di termini legati all’identità, con oltre 2400 lemmi che mappano le parole del cambiamento sociale. “Se puoi nominarlo, puoi cambiarlo,” recita il claim del progetto. Il linguaggio, spiega, non è mai neutro: costruisce la realtà tanto quanto la descrive. Dare nome a fenomeni invisibili significa renderli pensabili, e quindi modificabili.In un’epoca in cui il dibattito sull’inclusione è spesso polarizzato, il lavoro lessicografico di Camarda è un atto di cura: fornisce strumenti concettuali per parlare di genere con precisione e consapevolezza. È anche un dispositivo educativo, utile a chi lavora nei media, nella scuola, nella sanità o nelle risorse umane — ambiti in cui le parole determinano comportamenti e percezioni.Durante la conversazione abbiamo riflettuto anche sulle nuove modalità di relazione nel mondo culturale contemporaneo. La digitalizzazione ha cambiato il modo in cui la cultura si produce e si fruisce, e oggi chi lavora nei contenuti deve possedere competenze sempre più trasversali. L’editor, dice Camarda, è ormai un regista di significati, un connettore di saperi che attraversa formati e tecnologie.Alla fine, la sua idea di cultura appare chiara: un terreno di sperimentazione continua, dove la tradizione diventa piattaforma per innovare. Torino, in questo senso, resta una città che “pensa più di quanto parli” — capace di costruire con discrezione, ma con una forza progettuale unica.L’incontro con Marzia Camarda restituisce l’immagine di una cultura viva, concreta, capace di generare valore e non solo di raccontarlo. È la prova che l’Italia può ancora pensare la cultura come motore di sviluppo, se la considera una competenza produttiva, non un lusso da proteggere.

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    14 min
  • Ep. 83: Lucrezia Nardi – L’arte come rituale, radicamento e atto politico
    Oct 21 2025

    Nel nuovo episodio di Torino e Cultura ho incontrato Lucrezia Nardi, curatrice, docente e ricercatrice torinese. La sua voce è quella di chi vive l’arte come una forma di educazione, di emozione e di comunità. “La pratica didattica è strettamente collegata alla curatela,” racconta, “perché entrambe diffondono un pensiero. Il curatore è un’orchestra di relazioni e processi.”Da sette anni insegna Storia dell’arte contemporanea e Storia dell’arte sociale allo IAAD. Per lei, insegnare è un gesto di appartenenza, un modo per restituire ciò che si è imparato viaggiando. Torino è casa, ma anche punto di ritorno dopo tanti spostamenti: New York, Parigi, Belgrado. “Ho frammenti di me in tanti luoghi,” dice. “Il viaggio mi ha insegnato che si può essere radicati e nomadi allo stesso tempo.”L’arte, per Lucrezia, è un atto di generosità. “Fare la curatrice è dare spazio e voce,” spiega. La sua vocazione nasce da una catarsi davanti a una mostra a New York: “Ho provato un’emozione talmente forte da volerla portare agli altri.” Da allora lavora con artisti emergenti, spesso ex studenti, in una relazione di scambio continuo: “Io aiuto loro a crescere, loro aiutano me a imparare.”Descrive il suo mestiere come una tessitura infinita di relazioni che si scompone e si ricrea ogni volta. “Li accompagno, poi li lascio andare. È un processo romantico e ciclico.”Oggi la sua pratica si muove tra Torino e il mondo: ha lavorato con il Museo d’Arte Contemporanea di Belgrado e partecipato alla Biennale di Gwangju in Corea. Ma l’asse resta sempre la relazione tra indipendenza e istituzione. “Ci sono differenze di mezzi e di processi, ma la sostanza è la stessa: il rapporto con le persone.”Al centro di tutto, però, c’è l’emozione. “Io mi occupo di emozioni, non di nient’altro,” dice. “È un pensiero radicale, e quindi politico. Tutto ciò che è umano diventa sociale.”Per lei, l’arte è un modo per curare la solitudine contemporanea. Viviamo frammentati, tra corpi e dispositivi, immersi nelle storie degli altri, eppure isolati. “L’arte è uno spazio per tornare umani.”Negli ultimi anni Lucrezia osserva un ritorno al rituale nell’arte contemporanea: un bisogno di archetipi e gesti antichi anche dentro l’ipertecnologico. “C’è un ritorno all’ancestrale, a un sentire che riporta umanità nel digitale,” spiega.Racconta un momento che l’ha segnata: “A Bruxelles, davanti a un video di Bartolina Xixa, ho pianto. Quella musica me la ricordo ogni volta che mi sento sola.” È in quell’emozione condivisa che ritrova il senso profondo dell’arte: “Andare fuori dalla realtà per ritrovarne una arricchita, dove la solitudine si dissolve.”Come docente, Nardi si interroga su chi decide cosa è degno di essere insegnato. “Posso avere la mia poetica,” dice, “ma devo offrire agli studenti anche estetiche che non mi appartengono. È un atto di apertura.”Insegna pratiche transdisciplinari tra arte e design, e coinvolge gli studenti nei suoi progetti: “La didattica deve essere uno scambio reciproco.”Questo approccio ha trovato una forma concreta nel Barriera Design District, associazione nata per mappare e unire le realtà creative di Barriera di Milano. “Abbiamo scoperto più di 80 luoghi di arte e cultura in poche vie,” spiega. “Ma queste realtà non parlano tra loro. Il nostro obiettivo è connetterle.”Per Lucrezia è anche un modo per lavorare contro la gentrificazione culturale: “Non voglio portare dall’alto il mio contenuto, ma costruirlo insieme alle comunità locali.”In tutto ciò, la domanda che la guida resta sempre la stessa: “Come si fa ad aprire rimanendo fedeli a se stessi?”Una tensione costante tra autenticità e accessibilità, tra estetica e inclusione.Alla fine dell’intervista, sintetizza tutto in una frase che resta:“Noi siamo architetture sensibili, e tutto quello che faccio è per far sentire quello che sento io quando entro in una mostra.”

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    19 min
  • Ep. 82: Giuseppe Culicchia - Dalla provincia al cuore letterario di Torino
    Oct 14 2025

    Giuseppe Culicchia racconta la sua storia partendo dalle origini: figlio di un barbiere di Grosso Canavese e di un'operaia tessile, è cresciuto in un paesino senza librerie né biblioteche. Eppure, proprio in quel contesto apparentemente privo di stimoli culturali, è nata la sua passione per la lettura, alimentata da un padre che, pur non avendo molti soldi, ordinava volentieri i libri che il figlio desiderava.Il 15 dicembre 1976 segna uno spartiacque nella sua vita. Tornando a casa da scuola, appena undicenne, trovò la famiglia in lacrime: Walter Alasia, suo cugino e figura fraterna, era stato ucciso dopo essere entrato nelle Brigate Rosse. Quel giorno decise che avrebbe raccontato chi era Walter prima di diventare un brigatista. Ci avrebbe impiegato 45 anni.Il percorso verso la scrittura non fu semplice. Scoraggiato dall'iscriversi al liceo classico, frequentò ragioneria studiando materie che detestava. Ma proprio questo lo spinse a rifugiarsi ancora di più nella letteratura. La scoperta di Hemingway, attraverso una copia di "Fiesta" trovata in casa, fu una rivelazione: capì che la scrittura poteva restituire voci autentiche, trasformare personaggi in persone vere.La sua gavetta passa per i luoghi simbolo della cultura torinese: piccole librerie, il primo Salone del Libro del 1988 (dove incontrò Fernanda Pivano, pensando che quella mano aveva stretto quella di Hemingway), la Libreria Internazionale del Salone con i suoi orari massacranti ma che gli garantivano sempre mezza giornata per scrivere.L'incontro con Pier Vittorio Tondelli fu decisivo. Tondelli pubblicò cinque suoi racconti nell'antologia "Under 25-3" del 1990 e gli suggerì di scrivere un romanzo. Nacque così "Tutti giù per terra" (1994, Garzanti), il cui protagonista si chiamava Walter - unico modo che aveva all'epoca per ricordare il cugino.Il grande successo arrivò nel 2005 con "Torino è casa mia" (Laterza), nato dall'idea di raccontare la città come se fosse un appartamento. Il libro vendette 250.000 copie e divenne una guida per chi arrivava a Torino durante le Olimpiadi del 2006, scoprendo una città ben diversa dall'immaginario della "città-fabbrica."Dall'aprile 2025, Culicchia dirige la Fondazione Circolo dei lettori. La sua visione per il Circolo dei lettori e delle lettrici è chiara: non solo presentare novità editoriali, ma anche approfondire il catalogo e promuovere un "Dialogo Aperto", titolo della nuova stagione del Circolo In un'epoca di scontri e contrapposizioni, richiama le parole dell'arcivescovo Zuppi: "Dove cessa il dialogo inizia la barbarie." Uno dei primi cicli di incontri che ha ideato parte dal Novecento italiano: avanguardie artistiche, guerra civile, boom economico, terrorismo e stragi di mafia. Cinque momenti per riflettere sul presente attraverso il passato, quel "secolo breve che fatica a finire."Il primo ciclo di incontri che ha organizzato parte dal Novecento italiano: avanguardie artistiche, guerra civile, boom economico, terrorismo e stragi di mafia. Cinque momenti per riflettere sul presente attraverso il passato, quel "secolo breve che fatica a finire."Culicchia continua a scrivere, lavorando sempre con anticipo. Ha già consegnato diversi libri per i prossimi anni, scritti perché sentiva fossero necessari. Dal paese del Canavese dove ordinava libri attraverso una rivendita, al cuore della cultura torinese: un percorso che dimostra come la letteratura possa cambiare una vita.

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    31 min
  • Ep. 81: Casa Fools - Luigi Orfeo - Opera e teatro come missione di riscatto sociale
    Oct 2 2025

    Luigi Orfeo è nato e cresciuto nell'area nord di Napoli, a Scampia, e il suo incontro con il teatro è stato quasi accidentale. "Io devo ringraziare tantissimo una parrocchia che fra le varie cose che aveva, aveva un campo di calcetto perché a me lo teatro non portava proprio niente, io giocavo a pallone," racconta con sincerità. Ma quella stessa parrocchia ospitava una compagnia amatoriale che prendeva il teatro come "un impegno serio," e il giovane Luigi rimase incantato guardando le loro prove. A dieci anni aveva già visto quasi tutte le commedie di Eduardo dal vivo, finché non decise di provare a partecipare. Il ricordo è nitido: "Davanti a Filumena Marturano piangevo, ero estasiato."A quattordici anni scrisse il suo primo spettacolo teatrale, che sua madre conserva ancora "col titolo colorato con i pennarelli." Da lì iniziò a fare teatro "come la cosa più naturale del mondo, cioè non sapevo niente del teatro, io lo facevo perché lo facevo e basta." Questo atteggiamento spontaneo è rimasto per tutta la vita: "Io faccio teatro e basta. Sì, poi ho studiato per farlo meglio." Gli studi lo portarono alla Silvio D'Amico, dove incontrò Stefano durante i provini. Da allora, vent'anni insieme nell'avventura dei Fools.Ma la vera rivelazione che ha segnato il percorso artistico di Luigi è arrivata attraverso l'opera lirica. Dopo aver studiato regia operistica, nel 2015 gli offrirono di dirigere la Tosca. "Esaltatissimo accetto, attacco, chiamo mia madre e dico: mamma che bellezza faccio la regia di Tosca." La risposta fu disarmante: "E chi è Tosca?" pensando che fosse una persona. "Io là ho capito la profonda ingiustizia che c'è nel divario culturale."Per Luigi, l'opera lirica rappresenta qualcosa di unico: "È forse la più grande invenzione artistica del genere umano, perché dentro l'opera ci sono tutte le arti che l'umano ha inventato, tutte in un equilibrio perfetto." La musica ha un potere particolare: "Ti pervade prima ancora che arrivi il senso, tu ti trovi a piangere prima ancora di capire perché." Nonostante i suoi successi internazionali - è stato probabilmente il più giovane regista d'opera italiano ad allestire un'opera completa in Medioriente, nell'anfiteatro romano di Amman - qualcosa non andava. Vedeva "gente impellicciata" a teatro mentre "persone che invece ne avrebbero tratto un giovamento incredibile non sapevano niente di tutta quella bellezza."La diagnosi è chiara: "L'opera è un'arte popolare che abbiamo fatto diventare un'arte elitaria." Un'arte che appartiene apparentemente solo "a chi se lo può permettere, sia economicamente che intellettualmente. Cosa assolutamente inverosimile," perché Rigoletto "è stata scritta per sobbillare il popolo e il popolo grazie a Rigoletto ha cominciato a incazzarsi col potere."Da questa consapevolezza è nato Opera Pop, lirica raccontata ad arte, un ponte tra quest'arte e le persone che non solo non ne sanno niente, ma "non ne vogliono sapere niente." Il progetto, iniziato dal vivo e poi trasferito sui podcast durante il Covid, è diventato probabilmente il podcast più ascoltato d'opera lirica in Italia. Luigi ha raccontato opere ovunque: "Dal teatro lirico ufficiale fino a un prato in un orto con le galline sotto i piedi, ma ti dico con le galline sotto i piedi."Il Covid ha insegnato due lezioni fondamentali: "Uno, al potere non gliene frega niente della cultura. Se sparisce è pure meglio, ci levano pensieri. Due, sottostima quanto invece al pubblico, alle persone, questa roba qua piace. Piace perché li unisce, piace perché li fa stare insieme."La missione di Luigi e dei Fools è chiara: diffondere cultura, bellezza e attraverso queste "cercare un modo per ristabilire e creare legami fra le persone." Il successo costante dal Covid in poi non è casuale: "Non perché siamo fighi, perché rispondiamo a un bisogno reale."

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    8 min
  • Ep. 81: Casa Fools - Stefano Sartore - Dal palco alla strada, la cultura invade Vanchiglia
    Oct 2 2025

    Stefano Sartore è nato nella provincia di Torino, ma il suo percorso verso Casa Fools è passato per Roma. Nel 2004 si è trasferito nella capitale per studiare all'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico, dove ha incontrato Luigi, il suo futuro socio. "Siamo andati a vivere insieme per caso e nelle stanze di questa casa che abbiamo preso in affitto il primo anno con altri ragazzi è nato il progetto Fools," racconta Sartore. All'epoca era semplicemente "una scusa per degli attori di mettersi intorno ad un letto a leggere dei testi." Da lì sono partiti i primi lavori, hanno gestito un teatro a Roma, ma dopo qualche anno hanno sentito il bisogno di cambiare."Roma ci stava stretta o troppo larga, perché Roma è veramente una metropoli ed è invivibile," spiega Sartore. "Abbiamo deciso di spostarci verso un centro un pochino più a misura d'uomo, in cui la qualità della vita potesse essere anche un pochino più gradevole." Durante le tournée, Stefano studiava ogni città, cercava di capire se fosse un posto dove la cultura potesse crescere. Portava avanti progetti anche a Torino, faceva venire i compagni da Roma. "Alla fine, dopo tutta questa indagine, ci siamo resi conto che Torino era una città che offriva molto. In quel periodo era veramente un arco crescente per la cultura, un terreno molto fertile."L'incontro con Roberta è stato determinante. Cercavano attrici del posto per i primi spettacoli. "Dopo aver lavorato un po' con Roberta, ci siamo guardati e ci siamo detti: questa ragazza, oltre a essere molto brava sulla scena, ha delle caratteristiche interessanti." L'hanno coinvolta nella realtà che è diventata "a tutti gli effetti una nostra realtà di tutte e tre."La filosofia di Casa Fools nasce da un'esigenza profonda. "Questo mestiere purtroppo molto spesso ti trovi in situazioni in cui partecipi a un progetto stretto come può essere uno spettacolo ma non c'è una progettualità lunga," riflette Sartore. "Gli attori sono anche molto spesso un po' egocentrici, in cui non si riesce a creare veramente un rapporto. Noi quello che abbiamo sempre cercato di fare è creare una relazione vera." Quando hanno aperto il teatro, "c'è una enorme comunità che ha aderito a questa cosa, cioè che vuole trovare nel teatro un po' un modo di entrare in connessione con le altre persone."Sartore rivela di essere stato lui, tra i tre soci, a insistere per prendere lo spazio teatrale. Ormai vive tra Torino e la Francia per motivi d'amore, ma quando Luigi e Roberta gli hanno parlato della proposta, ridendo, ha detto: "Ma ragazzi si deve fare."La svolta è arrivata con il Festival delle Arti Popolari. Le feste di inaugurazione stagionale sono cresciute progressivamente: dalla piazzetta Santa Giulia alla strada davanti al teatro. "Ci siamo detti: il teatro non ci basta più, cioè queste quattro mura non ci bastano più. La cultura deve esplodere, ci deve essere questa esplosione in strada." Il primo anno era un solo giorno, poi due, quest'anno cinque giorni con il tema della "ricreazione" - intesa sia come pausa che come ricostruzione. "L'idea che volevamo passare era proprio: lo spazio è vostro, dovete prendervelo, dovete impossessarvene e farlo vostro."L'ultimo festival ha visto la strada piena di persone dalle 10 di mattina alle 11 di sera. "Alla sera siamo saliti sul palco per presentare i gruppi finali e vedevi tutta una testa fino in fondo, fino a Corso Regina ed era una meraviglia." La soddisfazione è palpabile: "Vedere il teatro pieno, vedere la strada invasa, è proprio qualcosa che ti nutre e ti dice: ha un senso fare questa cosa."Non mancano però le difficoltà. Quest'anno hanno dovuto affrontare persino minacce di morte da un vicino infastidito: "Vi voglio morti! Abbiamo dovuto chiamare i carabinieri." Ma nemmeno questo ha rovinato la giornata. "Già a metà giornata questo era dimenticato perché veramente vedere tutte queste persone che aderiscono a questa festa ti riempie il cuore."

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    10 min
  • Ep. 81: Casa Fools - Roberta Calia - Teatro partecipativo che trasforma gli spazi in comunità
    Oct 2 2025

    Nel cuore di Vanchiglia, nascosto all'interno di un condominio torinese, si trova uno spazio teatrale che sta ridefinendo il rapporto tra cultura e cittadinanza. Casa Fools, con i suoi 85 posti, rappresenta molto più di un semplice teatro: è un esperimento sociale di partecipazione culturale che da sette anni costruisce comunità attraverso la condivisione delle scelte artistiche.Roberta Calia, attrice e codirettrice artistica di Casa Fools, racconta una storia che inizia nel 2010, quando incontrò una compagnia appena arrivata da Roma che cercava un'attrice. "Sono andata a fare il provino e ho conosciuto i Fools. Dovevano essere i miei compagni di viaggio per una semplice avventura di una produzione e invece da allora non ci siamo più lasciati."L'occasione di rilevare uno spazio si presentò nel 2018, quando il Teatro della Caduta propose di passare il testimone. La reazione iniziale fu un rifiuto: "Ci sembrava che avrebbe arrestato la nostra attività di compagnia di giro." Ma uno dei tre soci ebbe un'intuizione che cambiò tutto: "Lo spazio è proprio quello che ci serve."Così nacque Casa Fools. La scelta del nome riflette una visione precisa: "Il nostro desiderio era che le persone si sentissero a casa, che abitassero un luogo, quindi non solo spettatori, non fruitori di un prodotto culturale, ma persone che abitano uno spazio." Per Calia e i suoi soci, il teatro è sempre stato "uno strumento, non un fine, ma il mezzo per ragionare sulle cose e per stare insieme alle persone."Questo concetto si manifesta concretamente attraverso il Collettivo Cartellone Condiviso. Casa Fools apre una call che riceve centinaia di candidature (quest'anno oltre 350), ma la selezione degli spettacoli non viene fatta solo dalla direzione artistica. "Condividiamo con gli spettatori e le spettatrici la direzione artistica," spiega Calia. Il collettivo, composto da più di 30 persone, include una straordinaria varietà di profili: studenti universitari, pensionati, ingegneri, medici, professori.La diversità genera dibattiti appassionati. "Quando uno spettacolo vale la pena, si accendono anche delle discussioni belle, belle calde, quasi al limite della lite. È bello vedere persone che tifano per uno spettacolo teatrale, una cosa che ha del surreale." La paura di lasciare il controllo c'è sempre: "Chissà cosa verrà fuori quest'anno. Perché lasciare il controllo fa anche paura." Eppure, dopo sette anni, le programmazioni si sono sempre rivelate "super interessanti, super variegate."Il collettivo porta con sé anche il concetto di responsabilità condivisa. "Prendersi una responsabilità è un concetto che nella nostra epoca risuona un po' come un peso," osserva Calia, "invece questa responsabilità noi cerchiamo di intenderla in senso positivo."All'apertura nel 2018, l'accoglienza fu tiepida. "Siamo stati accolti dal clima tipico torinese, con diffidenza, tipo 'guardiamo un po' questi chi sono e che cosa combinano'." Poi la pandemia costrinse alla chiusura per 15 mesi. Ma da questa crisi emerse un cambiamento: "Gli operatori culturali nella difficoltà sono stati costretti a mettersi insieme." Nacquero dialoghi e coprogettazioni che continuano ancora oggi."Abbiamo proprio avvertito un cambio di passo fra la Torino culturale del pre-pandemia e quello che succede da allora fino ad oggi. Ed è per me un passaggio molto positivo che Torino è riuscita a fare." Oggi Casa Fools è fortemente radicata a Vanchiglia, dimostrando che la cultura partecipativa può davvero trasformare non solo uno spazio, ma un'intera comunità.

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