Épisodes

  • La marrana e il morbillo da «Roma fuggitiva» di Carlo Levi
    Nov 20 2025
    Fino a non molti anni fa, Roma era ancora una città chiusa in un deserto pastorale, fatto di campagna solitaria, di distese bruciate, di ondulazioni giallastre, di paludi e di boschi.
    La città finiva improvvisa e cominciava la campagna antica, popolata di greggi: una natura naturale, piena d'incanto, di silenzi ed insidie.
    Questa natura si è allontanata tanto che a stento la si può raggiungere o ritrovare, e soltanto in qualche suo resto o residuo.
    Ancora dieci anni orsono, le greggi transumanti attraversavano il centro di Roma nelle stagioni dei viaggi, scendendo dai pascoli delle montagne, verso le piane invernali: le vedevo camminare nella notte nella piazza del Pantheon, udivo di lontano, nell'ombra, il loro passo, simile a un mormorio.
    E ancora nei prati della Villa Doria Pamphili svernavano i pastori nelle loro capanne di paglia e di frasche.
    Ora, i greggi, ben più numerosi, delle automobili, hanno occupato tutte le strade, sbarrando il passo agli animali.

    Luoghi narranti narrati o citati: Piazza del Pantheon - Villa Doria Pamphili - Monte Mario - Quartiere San Basilio

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    È una città eterna e «fuggitiva», nobilissima e plebea, sempre in bilico tra il cammeo e la patacca, quella raccontata da Carlo Levi in questi scritti, che «sembrano inseguire Roma, nel suo splendore fuggitivo, nelle mosse in cui la sua bellezza pare espandersi, aprirsi a un nuovo sviluppo civile». Sfila in queste pagine intense, scritte tra il 1951 e il 1963, una moltitudine di tipi e personaggi, veri ritratti parlanti e gesticolanti di un mondo popolare, di antichissima civiltà, governato dalla più flemmatica e scettica filosofia di vita e insieme dotato di sorprendente vitalità.

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    8 min
  • Gli ebrei di San Nicandro da «Baroni e contadini» di Giovanni Russo
    Nov 20 2025
    Maggio 1951

    La ferrovia che da Gioia del Colle porta a Gravina attraversa un paesaggio brullo e malinconico.
    Gli orti, gli agrumeti, i filari di alberi da frutta, che si succedevano senza intervalli, lungo la costa, fino a Bari, hanno ceduto il posto, nell'interno, ha una terra da cui affiora una pietra grigia e porosa come quella della pomice.
    Con queste pietre i contadini hanno costruito muretti per delimitare i fondi o hanno elevato grossi mucchi sul terreno.
    È la terra delle Murge, l'altro volto della Puglia, quello che essa ha in comune con il Mezzogiorno agricolo arretrato e depresso.
    Su questo terreno sassoso pascolano le greggi e gli olivi gracili sembrano alberi selvatici, dove sorge qualche casale che pare abbandonato.
    Gravina è all'inizio di un altopiano dove la pietra è scomparsa e il terreno è verdeggiante e più fecondo.
    La strada che conduce il paese è larga e in discesa.
    Sui muri delle case sono affissi dei manifesti semi strappati: alcuni inneggiano a De Gasperi e al ministro Petrilli, che è venuto giorni fa a tenere un discorso sulla riforma agraria, altri ai Comitati della terra, organizzati dai comunisti.
    Un grosso avviso annuncia che il territorio di Gravina è stato compreso nella legge stralcio.
    Oggi, che è domenica, i carretti riposano in fila, con le stanghe in aria, dinanzi alle stalle, stanzoni dove sono depositate le selle e sono allineati alle mangiatoie cavalli e muli.
    La strada è piena dell'odore della paglia e del letame.

    Luoghi narranti narrati o citati: San Severo - San Nicandro (Garganico) - Gargano - Corso Umberto I - Apricena

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    “Baroni e contadini", insieme con i “Contadini del Sud" di Scotellaro e “Le parrocchie di Regalpetra” di Sciascia, è stato tra le più importanti testimonianze sul Mezzogiorno. Giovanni Russo mette a confronto il Sud del dopoguerra con le sue miserie secolari e il suo patrimonio di civiltà e di lotte sociali con i temi centrali della questione meridionale degli anni Ottanta.

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    34 min
  • Il calzolaio di Gravina da «Baroni e contadini» di Giovanni Russo
    Nov 18 2025
    Maggio 1951

    La ferrovia che da Gioia del Colle porta a Gravina attraversa un paesaggio brullo e malinconico.
    Gli orti, gli agrumeti, i filari di alberi da frutta, che si succedevano senza intervalli, lungo la costa, fino a Bari, hanno ceduto il posto, nell'interno, ha una terra da cui affiora una pietra grigia e porosa come quella della pomice.
    Con queste pietre i contadini hanno costruito muretti per delimitare i fondi o hanno elevato grossi mucchi sul terreno.
    È la terra delle Murge, l'altro volto della Puglia, quello che essa ha in comune con il Mezzogiorno agricolo arretrato e depresso.
    Su questo terreno sassoso pascolano le greggi e gli olivi gracili sembrano alberi selvatici, dove sorge qualche casale che pare abbandonato.
    Gravina è all'inizio di un altopiano dove la pietra è scomparsa e il terreno è verdeggiante e più fecondo.
    La strada che conduce il paese è larga e in discesa.
    Sui muri delle case sono affissi dei manifesti semi strappati: alcuni inneggiano a De Gasperi e al ministro Petrilli, che è venuto giorni fa a tenere un discorso sulla riforma agraria, altri ai Comitati della terra, organizzati dai comunisti.
    Un grosso avviso annuncia che il territorio di Gravina è stato compreso nella legge stralcio.
    Oggi, che è domenica, i carretti riposano in fila, con le stanghe in aria, dinanzi alle stalle, stanzoni dove sono depositate le selle e sono allineati alle mangiatoie cavalli e muli.
    La strada è piena dell'odore della paglia e del letame.

    Luoghi narranti narrati o citati: Gioia del Colle - Gravina (in Puglia) - Museo Santomaso - Murge - Altamura

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    “Baroni e contadini", insieme con i “Contadini del Sud" di Scotellaro e “Le parrocchie di Regalpetra” di Sciascia, è stato tra le più importanti testimonianze sul Mezzogiorno. Giovanni Russo mette a confronto il Sud del dopoguerra con le sue miserie secolari e il suo patrimonio di civiltà e di lotte sociali con i temi centrali della questione meridionale degli anni Ottanta.

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    33 min
  • Calcio e letterati da «Roma fuggitiva» di Carlo Levi
    Nov 18 2025
    L’influenza avvolge la città di Roma come una bruma sottile di tiepide goccioline di sudore: un'influenza leggerissima, quasi inesistente, una febbretta che se la misuri scompare, una stanchezza che non sai se venga di dentro o di fuori, dal tempo incerto e mutevole, dalla fatica o dalla minuscola epidemia; una sorta di noia, o disgusto che non sai se venga dallo spirito e dalla moda letteraria del tempo o dai nuovissimi virus che si diffondono invisibili.
    In questo stato di incertezza svogliata, mentre non sai se devi considerarti sano o malato, se devi stare a letto o alzarti ed uscire, e ogni gesto e azione sembra pesantissima, ogni odore e sapore disgustoso, ogni desiderio incomprensibile, e il senso interno del corpo fa del mondo di fuori una specie di ovatta umida e caldiccia, nella quale gli interessi più urgenti si affidano a una pazienza rassegnata al domani, il telefono tuttavia squilla, ancora più fastidioso del solito, portando, come pesi malaticci, gli altrui bisogni, le sollecitazioni, le richieste, gli affetti.

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    È una città eterna e «fuggitiva», nobilissima e plebea, sempre in bilico tra il cammeo e la patacca, quella raccontata da Carlo Levi in questi scritti, che «sembrano inseguire Roma, nel suo splendore fuggitivo, nelle mosse in cui la sua bellezza pare espandersi, aprirsi a un nuovo sviluppo civile». Sfila in queste pagine intense, scritte tra il 1951 e il 1963, una moltitudine di tipi e personaggi, veri ritratti parlanti e gesticolanti di un mondo popolare, di antichissima civiltà, governato dalla più flemmatica e scettica filosofia di vita e insieme dotato di sorprendente vitalità.

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    8 min
  • I giocattoli giapponesi da «Roma fuggitiva» di Carlo Levi
    Nov 17 2025
    Col passare degli anni, le feste, le grandi feste collettive, devono apparire, a chi invecchia, sempre meno gradevoli e tollerabili, sempre più obbligatorie, rituali e conformistiche, sempre più prive, fino a mancarne del tutto, di quell’aria di attesa e di speranza, di quel piacere dell'azione comune e dell'occasione, di quel vago immaginare degli incontri e delle scoperte, che gli rimangono soltanto come un dolente ricordo dell'età giovanile e perduta.
    E certo il conformismo della festa è un fatto reale per chi in altri tempi l'ha vissuta o contemplata, poiché essa, salvo trascurabili varianti della moda, si ripete identica nel suo carattere rituale, ed è nuova soltanto per i nuovi giovani che, hanno per anno nuovi, prendono il posto, sul selciato di Piazza Navona, dei vecchi che si ritirano e si chiudono a chiave nei loro case.
    La Befana di Piazza Navona, la più grande festa dell'anno, la più romana, la più antica, col suo frastuono agreste e pagano, i fischietti come migliaia di grilli nella notte estiva del freddo inverno, e il rumore roco delle raganelle, il verso campestre delle chiocce sull'aia, e tutti i pulcini di Roma che guardano i palloni e i lumi, è una vera immagine dell'eterna immutabilità.

    Luoghi narranti narrati o citati: Piazza Navona

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    10 min
  • Le bandiere di San Severo da «Baroni e contadini» di Giovanni Russo
    Nov 17 2025
    Maggio 1951

    San Severo è un paese vasto, intersecato da lunghe strade, che si aprono tra file di case costruite senza una precisa architettura.
    Si è esteso, come tutti i paesi del Tavoliere, senza una regola.
    Conta 50.000 abitanti. I proprietari e in genere il ceto medio, impiegati e commercialisti, abitano quasi tutti al centro.
    Nei «riali», che si prolungano fino all'estrema periferia, sono le abitazioni dei contadini poveri e dei braccianti.
    Alcune di queste strade si chiamano con nomi significativi: Via Perseveranza, Via Progresso, Via Libertà, Via Riforma.
    Qui, in una stanza, il sottano, vive una famiglia di dieci persone, a volte con l'asino o il mulo accanto al letto.
    All'alba gli uomini partono, con la zappa legata al manubrio di una vecchia bicicletta, per la vigna o il pezzo di terreno, lontani, a volte, molti chilometri.
    La mattina presto, per le strade del paese, i garzoni dei vaccari portano a vendere il latte a domicilio agitando un campanaccio, di quelli che si mettono al collo delle mucche.Anche l'acqua si vende a domicilio.
    Per la maggior parte le case di contadini sono prive di condutture di acqua e le fontane pubbliche sono poche.
    Per 10 lire si acquistano dall'acquaiolo 20 litri di acqua buona.
    Ma il progresso si è stabilizzato solidamente a San Severo, come dimostrano le numerose insegne luminose al neon.
    All'imbrunire i negozi del Corso e i bar della Piazza del Municipio accendono la insegne luminose.

    Luoghi narranti narrati o citati: San Severo - Via Riforma - Piazza del Municipio - Camera del Lavoro - Foggia

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    27 min
  • Il colcos di Pocaterra da «Baroni e contadini» di Giovanni Russo
    Nov 15 2025
    Marzo 1950

    Tonini è un contadino padovano di una quarantina d'anni.
    Parla con quel dialetto stretto che usano nelle campagne venete e, anche quando si esprime in italiano, pronuncia le parole con una cadenza canterellante.
    È seduto sul muricciolo dinanzi al magazzino del consorzio a Borgo Sabotino, uno dei sedici borghi dell'Agro Pontino, che porta come tutti gli altri il nome di un campo di battaglia dell'altra guerra.
    Sono con lui altri quattro coloni tutti veneti.Borgo Sabotino è a pochi chilometri dalla costa e possiede una spiaggia frequentata d'estate dalle famiglie degli impiegati di Latina con cui è collegato da una corriera che passa puntualmente alle nove e alle quattordici.
    È il centro sociale della zona dove la domenica vengono dai poderi vicini i coloni a riempire le due osterie e a vedere il cinema: vi sono la chiesa, il mulino e cinque case costruite alla maniera di quelle di Latina.
    Ma qui la campagna e la presenza dei coloni fa sentire il pulsare di una vita.
    Qui, nel 1934, quando le case erano ancora fresche di calce, furono trasferiti direttamente dai loro paesi Tonini e gli altri coloni.
    Ma, dopo sedici anni, si sentono ancora estranee, come delle piante sradicate che non abbiano affondato completamente le nuove radici.
    Il fascismo tentò nell'Agro, fino al 1941, un vero e proprio esperimento di collettivizzazione agricola.
    «Era una specie di colcos», dice Nardin per rendere l'idea.«Ma noi non siamo fatti per i colcos».

    Luoghi narranti narrati o citati: Borgo Sabotino - Latina - Anzio - Aprilia - Borgo Piave - Sabaudia - Pontinia - Pomezia

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    21 min
  • Le tarme da «Roma fuggitiva» di Carlo Levi
    Nov 14 2025
    In nessun luogo come a Roma, forse, si lanciano dalle finestre, dalle terrazze, dai tetti, al finire dell'anno, tanti oggetti, che, fracassandosi sui selciati, simboleggiano il male, e il massimo dei mali: il tempo.
    Non li si gettano con la distaccata abitudine rituale di altrove, ma come una specie di ferocia diretta e quasi di personale violenza, che non si sa se sia rivolta piuttosto contro gli oggetti stessi che vengono lanciati, o la terra su cui precipitano, o gli immaginari nemici sconosciuti che si fantasticano esistere per le strade, o il gesto solo di lanciarli, o se stessi; o (forse perché si scelgono per questo uso oggetti non più nuovi, già segnati dal tempo, piatti fessurati, bicchieri incrinati, bottiglie vuote, mobili tarlati: cose tutte, almeno in parte, già morte, o vecchie, che devono come gli anziani, i padri e le madri di certe tribù selvagge, essere scaraventati dal tetto) con una ferocia che nasce altro che da una forma magica di amore.

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    È una città eterna e «fuggitiva», nobilissima e plebea, sempre in bilico tra il cammeo e la patacca, quella raccontata da Carlo Levi in questi scritti, che «sembrano inseguire Roma, nel suo splendore fuggitivo, nelle mosse in cui la sua bellezza pare espandersi, aprirsi a un nuovo sviluppo civile». Sfila in queste pagine intense, scritte tra il 1951 e il 1963, una moltitudine di tipi e personaggi, veri ritratti parlanti e gesticolanti di un mondo popolare, di antichissima civiltà, governato dalla più flemmatica e scettica filosofia di vita e insieme dotato di sorprendente vitalità.

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    12 min